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“…Ero carcerato e siete venuti a farmi visita…” (Mt 25,36)

Un gruppo di matti da legare, di una estemporanea parrocchia itinerante, domenica 1 ottobre, hanno varcato la soglia di ingresso del carcere di Poggioreale per animare la Messa che viene celebrata per i detenuti. Non una gita fuori porta, nemmeno un pic-nic; un viaggio, il cui intento era di portare una ventata di freschezza, accompagnati da un sacerdote con la stessa presunzione: portare qualche briciola di una Parola spezzata. Diciamocelo francamente, sono ladri, perché alla fine ci hanno derubati, tutti, prete compreso, di quei pochi spiccioli di certezza che avevamo in tasca. Siamo usciti più miseri di come siamo entrati e più poveri di quanto pensavamo di essere.

Avevamo l’arroganza di poter portare qualcosa. Ce ne siamo andati privi di tutto quello che non serve. L’ingresso del carcere affaccia in una dimensione parallela alla quotidianità, che è fatta di strada, di binari del tram, di gente che parla ad alta voce, talvolta in maniera scomposta; l’ingresso del carcere affaccia su un mondo di silenzi e labirinti di corridoi, dove i sordi chiavistelli, metalli che si aprono e chiudono, fanno da eco.

In questo mondo, altro, l’abitudine o la rassegnazione sembra essere diventata normalità e sembra attraversare quei corridoi da sempre, lambire quei muri bianco sporco da una vita e qui i varchi di controllo, i metal detector, gli scanner e le divise con le mostrine che hanno perso la lucidità della prima volta che sono state attaccate, le facce dure da mascelle serrate d’ordinanza, che se non ce l’hai, non superi il concorso, sembrano essere parte dell’arredamento spartano della Casa Circondariale “Giuseppe Salvia”, altrimenti detta “Poggioreale”.

Entriamo con l’entusiasmo degli incoscienti, che al primo sbarramento ci si è smorzato in faccia e con lui anche metà sorriso. “Chiavi, zaino, marsupio, cellulare e tutto il resto lo lasciate qui”. La prima freddata, che ci aspettavamo, si intende, ma un conto è saperlo e un conto è viverlo davvero. L’abbiamo immaginato come si guarda un film al portatile. Lo abbiamo vissuto come in un multisala, con il surround ed il 3D. Di quelli che non sai mai l’eco da dove arriva, se da dietro le spalle o dal pavimento, se da sopra la testa o da sotto la poltrona. E restiamo in piedi e quasi per uniformarci all’ambiente, anche un po’ sugli attenti.

In punta di piedi, ci siamo rimasti fino alla fine, come di chi sente l’imbarazzo di avere la possibilità di rimetterlo fuori quel piede, a differenza di quelli che ci guardano ad occhi bassi, con la rassegnazione di averceli tutti e due i piedi dentro. E pure le scarpe. Ed anche il cuore.

Nella cappella del carcere, il prete ischitano, con addosso la sola cosa che è passata al controllo, il camice bianco, ha iniziato con “Buongiorno a tutti, io vengo dall’isola che è stata definita la più bella del mondo, generalmente dico messa per le persone per bene, voi siete i delinquenti e noi le persone per bene, giusto? nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.

Se in sala prima c’era il freddo ora calava addirittura il gelo. Noi, i buoni, ci guardavamo con circospezione tentando di muoverci il meno possibile per non irritare la tensione che già tesseva la sua ragnatela, intrecciando i dubbi ai pregiudizi. Nelle orecchie come un suono di marranzano che veniva dai corridoi o forse dai banchi, (o forse era solo un picco pressorio che creava allucinazioni acustiche, chissà) …e già immaginavamo i titoli sui giornali “Rivolta nel carcere per la provocazione di un prete”

Ma loro, i cattivi, non ci pensavano proprio, avevano le anime ricomposte con dei vestiti addosso come stessero sulle stampelle quando metti i panni ad asciugare bagnati, perché non puoi stirarli. Rassegnati e spenti, sguardi bassi e vitrei, capo chinato a guardare per terra e ad aspettare la prossima pala di giudizio tirata addosso come fa la cazzuola quando schiaffa la calce sul muro da rifare.

I riti di introduzione, la liturgia della Parola, le canzoncine, tutto filava liscio e a breve saremmo sgattaiolati fuori e chi si è visto si è visto, la nostra buona azione l’avevamo fatta e arrivederci e grazie.

Quel marranzano, altrimenti detto scacciapensieri, che echeggia nelle campagne siciliane e che l’immaginario cinematografico associa al preludio di un’azione mafiosa, era ancora lì, con qualche semitono più basso, che si sentisse che suonava e si vedesse che non c’era o c’era poco e noi stavamo per cadere nell’imboscata. Nell’agguato di Dio, come direbbe don Marco Pozza.

Già dalla prima lettura avremmo dovuto capirlo che Lui da qualche parte sarebbe andato a parare, ma noi eravamo i buoni, mica potevamo immaginare di essere co-destinatari di una vagonata di cubetti di ghiaccio in faccia? I cattivi erano quegli altri.

L’omelia incentrata sulla parabola dei due figli, poi, non solo non ci è venuta affatto in soccorso ma ha scardinato gli ormeggi e ci ha fatto del tutto naufragare, noi e loro, buoni e cattivi, su un’unica zattera di fortuna fatta di inconsistenti retaggi e si salvi chi può. Già, ma chi si salva? I buoni o i cattivi? “Cu ‘nu sí te ‘mpicce e cu ‘nu no te spicce” Lo conoscete questo detto? A occhio e croce non mi sembrate venire dal Nord, no?”

Noi glielo abbiamo letto nel labiale mentre mormoravano –stu prevt è pazz-

“Voi avete fatto degli errori ma sappiate sin da subito, che non siete la somma dei vostri errori. NON SIETE LA SOMMA DEI VOSTRI ERRORI”.

Altro giro di surf aggrappati maldestramente a un’onda che ci ha travolti tutti ancor prima di montare sulla tavola. Le schiene si sono raddrizzate all’improvviso, i menti si sono alzati e gli occhi si sono aperti, le antenne drizzate e si dava inizio a un altro giro di giostra.

E’ luogo comune pensare che chi sta qui dentro sia feccia, scarto di umanità, gente che merita di marcire in galera, in una cella di cui devono buttare le chiavi e tutto il resto degli improperi che scarichiamo addosso al nemico, al diverso, all’altro da noi.

Varcata la soglia si incrociano occhi, anime, solitudini che chiedono sommessamente, sapendo di non meritarlo, di incontrare, parlare, ristorarsi di quel nutrimento che il mondo non è stato in grado di dare, e che loro, tutto sommato e ormai, nemmeno chiedono più. Per la legge sono stati già condannati, la sentenza, passata in giudicato, qualche volta divenuta titolo esecutivo dopo i tre gradi di giudizio, è poca roba rispetto alla loro di condanna, a quella che, senza possibilità di appello, si sono già inflitti.

Noi ci siamo arrogati la pretesa di portare Cristo là dentro, e invece Lui era già lì che ci aspettava. Era Lui ad aspettare noi e in mezzo a loro. Ancora il prete: “La buona notizia è che Dio ci ama così come siamo e malgrado noi, per Lui siamo talmente preziosi che ha versato il sangue per ciascuno di noi, tutti, nessuno escluso”. Questa ha funzionato poco, noi che osservavamo, più di qualche sopracciglio alzato non abbiamo registrato.

“Solitamente io faccio le omelie alle brave persone” Eccolo di nuovo che incalza, caso mai quella di prima fosse sfuggita. Stavolta lo strumento di Dio, il sacerdote, l’ha sparata grossa. Altro che scacciapensieri, questa è una molotov. “Ed io che sono prete, che indosso il camice bianco, devo mantenere una facciata da persona per bene, sennò che prete sono? E il coro, gli accompagnatori, loro sì che sono persone per bene, giusto? Mica come voi delinquenti.” Abbiamo tremato e non è stato per i Campi Flegrei. “Cu ‘nu sí te ‘mpicce e cu ‘nu no te spicce” lo ripete e la spiega “La parola del Vangelo di oggi parla dei due figli, uno che è accondiscendente, l’altro che manifesta la sua libertà di disobbedire. Le parabole hanno una superficie e poi il doppio fondo, l’oltre. Chi dei due figli fa la volontà del Padre? Chi dei due manifesta la sua libertà di dissentire? E Noi come figli, viviamo per assecondare le aspettative o per essere liberi di esprimere la nostra vera natura? Esiste un Dio che ci ama così tanto che prima dell’obbedienza ci lascia la libertà di disobbedire.”

Ci domandiamo se riprenderà mai fiato quell’omino lì, sull’altare, consentendo anche a noi di smettere di stare in apnea. Niente.

“E così voi avete disobbedito, è vero, esprimendo, come avete imparato da chi ve lo ha insegnato, la libertà di decidere. Giusto o sbagliato che sia, tutti noi impariamo quel che ci viene insegnato. Il mondo ci giudica, ci condanna, ci assolve, UNO solo ci aspetta e ci ama incondizionatamente, col niente che abbiamo, nell’inferno in cui stiamo.” Alle volte un NO ti leva dagli impicci, un SI’, ti inchioda.

Entrando qui, impari quanto vale la libertà e solo dopo che l’hai persa, impari che la normalità spesso è data per scontata mentre in molti di loro sognano una mezza giornata di noia, di panciolle, di divano, in luogo di ritmi scanditi, l’ora d’aria, l’ora di dormire, l’ora di svegliarsi, l’ora di mangiare.

Loro i cattivi e noi i buoni, solo perché hanno fatto quello che spesso anche noi sogniamo di fare. E travestiamo la nostra ipocrisia da perbenismo.

“Ora voi siete liberi”, Ok – devono aver pensato – è totalmente fuori, forse si droga – “siete liberi perché non avete nulla da perdere, tanto state già in galera, da cosa dovete nascondervi ormai? Siete senza filtri e senza maschere, senza il necessario bisogno di apparire e senza lo sforzo di non deludere nessuno. Perché avete perso tutto. In questo vuoto, in questa nudità LUI ci aspetta e tu, tu, tu ed anche tu, sei a un passo. Un passo da, un passo per.” Noi no. Noi abbiamo una reputazione ancora da mantenere, prima che ci si polverizzi.

Silenzio pensante, vista da questa prospettiva la loro dimensione assume un carattere diverso, quasi accettabile, glielo leggiamo negli occhi. Qualcuno mima un “apperò!”. Ma lui continua imperterrito ad affondare la lancia che però, a sto giro, trapassa anche noi.

“I pubblicani e le prostitute passeranno avanti perché accolgono Cristo e non devono difendere e mantenere una reputazione che hanno perso, come voi che oggi, qui, non avete nessuna maschera da mantenere. È per questa nudità che passeranno avanti a chi come me, come loro, (guardando noi) si ritiene una persona corretta, per bene, integerrima. Avanti, a chi pensa di non commettere mai errori e che, per questo, non potrebbe essere più distante di così da Dio. Con la parola del Vangelo di oggi vi consegno anche la memoria del buon ladrone. In realtà, la traduzione è sbagliata, non è stato mai buono e nemmeno solo ladrone. Era proprio un criminale, un assassino, un delinquente incallito, non ha mai fatto il battesimo, né la prima comunione né gli è mai passato per la testa di avvicinarsi ai Sacramenti, eppure è l’unico di cui abbiamo certezza – perché ce lo dice proprio Gesù – che è andato in Paradiso, da Santo. Era un lestofante, peggio di voi, e il Signore, inchiodato sulla croce, lo ascoltò e sentì il suo ravvedimento -oggi sarai con me nel Regno dei Cieli-. Quel criminale aveva preso coscienza della sua piccolezza e si era affidato a Gesù, rimettendo a Lui tutti i suoi peccati”. “E si è rubato pure il Paradiso”.

Risate fragorose e applausi affatto timidi hanno smorzato la tensione, allentato i condizionamenti e annientato i pregiudizi. Stiamo sulla stessa barca in mezzo alla tempesta della vita; più leggeri diventiamo e più possibilità ci sono di salvezza. A momenti però evaporiamo del tutto.

Quando don Carlo, strumento di un Dio che sorprende sempre, ha deciso di far rinnovare le promesse battesimali, ha chiesto ai detenuti di voltarsi verso la porta. Così, d’emblée.

Qualcuno tra noi benpensanti ha sospettato che volesse metterli in castigo, faccia al muro. Le rinunce al peccato, alle seduzioni del male, a satana, origine e causa di ogni peccato, lo strumento di Dio ha voluto che fossero rivolte e veicolate all’esterno, al mondo fuori, a quello degli uomini e loro, i detenuti, dovevano proprio volerla questa rinuncia, guardando verso la porta, indirizzando corpo, mente, cuore a quel NO. Nel dubbio, ci siamo voltati pure noi verso quella porta che dà sul mondo fuori, non si può mai sapere.

Poi li ha fatti girare verso il crocifisso, di legno, altezza uomo, perché potessero vederlo tutti, né troppo piccolo, visibile a pochi, né troppo grande da sembrare irraggiungibile. Con il “faccia a faccia” con Lui, che si è fatto carne e uomo come noi, hanno fatto la professione di fede. Credo in un solo Dio e lo hanno guardato negli occhi, finalmente.  E noi lì nel tiro incrociato tra loro e Lui a cercare di entrare almeno di sguincio in quell’atto di fuoco e d’amore, di occhi negli occhi.

C’è stato un canto, che avevamo preparato, scegliendolo, con cura, tra tanti: “Io sono qui” dei Nuovi Orizzonti. È piaciuto talmente tanto che dopo la comunione hanno voluto risentirlo. Abbiamo immaginato che la parte che più toccava le loro recuperate profondità potesse essere “Guardami, son io, non temere, spezzerò per te tutte le catene, tornerai a volare, tornerai da me, Io sono qui e non ti lascio mai”.

Volevamo, con questo canto, offrire una domanda aperta, qualcosa a cui pensare di sera. Loro avevano pronta già la risposta e hanno rilanciato con il messaggio di un Cristo vivente che parla a loro ma anche a noi con la “Ballata del perdono”, chitarra scordata e ritmo di mani battute in dialetto napoletano, “Guardando negli occhi tutta quella gente, diventava buono pure o’ malamente”, “affianco sulla croce, condannato insieme a me, si sentì una voce, non ti scordar di me, guardando mi girai e gli dissi oggi starai con me in paradiso”. Gesù che parla, Gesù che chiede, Gesù che risponde.

Gesù che aspetta. Loro, noi, proprio in quel posto che consideravamo l’inferno, nudo, infreddolito, in penombra, come di chi resta senza la carezza di una mamma prima di spirare. In quel coacervo di varie umanità aspettava noi per smascherarci delle nostre ipocrite certezze, loro per restituire autenticità e preziosità dimenticate. Chi ha letto le Letture non ha retto lo sguardo di chi chiede Acqua che disseta, non quella che dà il mondo ma quella a cui loro, noi, tutti, aneliamo desideriamo: l’acqua di Sorgente, la sola che può togliere quella sete e fame di aria pulita. Ognuno di noi è prigioniero, detenuto, incatenato. Solo che loro ne sono la prova, noi quella prova, la nascondiamo dentro a tutti gli alibi che ci creiamo.

Loro sono quelli che sapendo di essere in debito, quando ricevono una visita, una sorpresa inaspettata, qualcosa che smuove loro l’anima, tanto da farli commuovere, vengono conquistati con poco, perché non se l’aspettano, sono quelli del “tanto ormai”, del “si muore lentamente”. Sono quelli però a cui il Signore piace rilanciare, aumentare la posta, sapendo che se hai perduto tutto, qualunque cosa arriva è un dono. Prezioso. Immenso.

Dopo l’omelia, ricca di contenuti, lucciole alle quali puntare nelle notti più buie, c’è stato l’accenno alla Santa del giorno, Teresa di Lisieux e un aneddoto li ha definitivamente rapiti, a loro, ma pure a noi, per la straordinaria coincidenza.

Un detenuto era stato condannato a morte, Teresa ne ebbe notizia e pregò incessantemente, con fervore, per il suo ravvedimento e la sua anima. Qualche giorno dopo da un giornale, “La Croix” lesse del condannato, Pranzini, Pranzini non si era confessato, era salito sul patibolo e stava per passare la testa nel lugubre foro, quando a un tratto, colto da un’ispirazione improvvisa, si volta, afferra un Crocifisso che il sacerdote gli presentava e bacia per tre volte le piaghe sacre… in Cielo ci sarà più gioia per un solo peccatore che fa penitenza che per 99 giusti che non hanno bisogno di penitenza!”

“Nella giornata dedicata alla Santa delle rose avevo in animo di portare una rosa ciascuno, come sempre faccio dove celebro messa a Ischia.” Riprende il nostro Sacerdote. “Per motivi di sicurezza non mi è stato permesso.” Uno di loro, vincendo la remora, ha rotto il silenzio “nessuno mai ha avuto questa delicatezza, a noi basta questo, che l’abbiate pensato ed è come se oggi le rose fossero piovute dal cielo”. Gli addii, specie quelli dopo che sei stato bene, non piacciono a nessuno e chi dice il contrario mente. La nostalgia aleggiava nell’aria, la Messa stava per terminare e negli occhi di chi forse per la prima volta non avrebbe voluto terminasse mai, c’era già la malinconia. “non perdete la speranza, non lasciatevi sedurre dalla tentazione che vi autorizza a sentirvi dei falliti e che vi fa credere che non ce la farete mai, tutti nasciamo originali, qualcuno – come diceva il Beato Acutis – muore fotocopia. Restate originali. La speranza è una virtù teologale, un dono di Dio. La virtù del demonio, invece è la disperazione: non accettate mai questo dono perché il giorno in cui cederete a questa lusinga, inizierete a morire lentamente (cit. Martha Medeiros).” Un’altra boccata di ossigeno prima di allontanarci gli uni dagli altri.

La sorpresa inaspettata degli applausi scroscianti, delle lacrime che scendevano, degli occhi aperti e accesi, hanno quasi calamitato la discesa del sacerdote dall’altare che ad uno ad uno, fermi e composti nei banchi, li ha salutati, chi con una stretta di mano, chi con un abbraccio, chi con uno sfogo in un orecchio, chi accogliendo sulla sua spalla lacrime mai piante fino ad ora.

Uno tsunami dello Spirito, un ribaltamento di coordinate, un attraversamento di dimensioni e livelli che in quei doppifondi delle parabole, non sai mai a che profondità puoi arrivare. Tra noi il silenzio, ammutoliti. Loro volevano condividere, testimoniare, raccontare. Il sorriso ci è stato ridato da un detenuto quando ha voluto dirci che in occasione della visita del Papa al carcere di Poggioreale, è stata una fortuna essere stato arrestato, se no il Santo Padre sarebbe venuto a Napoli e lui non lo avrebbe visto.

Tornando a Ischia ci siamo detti che sarebbe auspicabile che il carcere diventasse un luogo che affianchi alla detenzione anche la redenzione, dove la libertà che si riacquista sia agognata in maniera consapevole e utilizzata con l’accortezza di chi riceve un dono, unico, originale, non riproducibile. Non si può più sprecare un’occasione del genere. Nessuno deve farlo, a partire da noi, che siamo già fuori o non ancora dentro.

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1 comments

  1. Anna Sofia Gicht

    La visita di Don Carlo ai detenuti del carcere di Poggioreale non solo mi ha commosso, ma ha aperto la mia mente ad una realtà spesso solo immaginata e poi dimenticata. Sono detenuti per aver commesso reati, chi più grave, chi meno. Ma se si scava nelle loro anime, si scopre che un cuore ce l’hanno, che sanno piangere. È la vita, tanto imprevedibile, che non raramente conduce su strade sbagliate. Ma esiste il pentimento, la redenzione, non una condanna che marchi a vita. C’è già la coscienza a ricordare, a fare soffrire: questa è una condanna a vita. Il carcere dovrebbe essere luogo di riabilitazione, non di sola punizione anche se lo è per sua natura. Gesù è là, sulla croce, a ricordarci il suo sacrificio, per tutti noi, buoni e cattivi. Don Carlo ci fa sentire piccoli davanti alla maestà del Signore, e grandi davanti alla sua misericordia. Grazie, Don Carlo. Sei capace di smuovere gli animi più incalliti, sei capace di portare con grande serenità la parola di Dio, anche fra chi forse non lo ha conosciuto, o lo ha dimenticato. Grazie, grazie sempre.

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