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Donna è diritto. Relazioni ferite

Il laboratorio sul genio femminile

È iniziato con una canzone di John Lennon l’interessante Convegno “Donna è diritto. Relazioni ferite”, presieduto dal prof. Giampiero Tavolaro, tenutosi venerdì 13 ottobre 2023 presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sezione S. Tommaso di Napoli.

Scritta e interpretata con grande sentimento – ha detto il nostro nuovo decano prof. Antonio Foderaro – questa canzone:

  • è una celebrazione dell’amore e dell’importanza delle donne nella vita degli uomini. Ed è fonte di ispirazione, in questo contesto, per esplorare temi cruciali legati ai diritti delle donne e alle dinamiche relazionali;
  • è un inno alle relazioni sane e rispettose tra uomini e donne. Il rispetto reciproco e l’amore possono essere infatti la base di una connessione duratura e significativa;
  • è un simbolo della lotta per i diritti delle donne: meritano rispetto, dignità e parità in ogni aspetto della vita. Le donne possono essere protagoniste delle proprie storie perseguendo i propri sogni e obiettivi senza essere subordinate agli uomini. Ci invita, questa canzone, a riflettere sugli stereotipi di genere e sul loro impatto nelle relazioni. Spesso sono stereotipi dannosi; possono portare a relazioni ferite e a comportamenti violenti. Questi stereotipi vanno superati.        

“Donna è (non congiunzione) diritto” è un’evidente forzatura – ha espresso il primo relatore, il prof. Alberto Maria Gambino: c’è la persona che può rappresentare la base del diritto. Ma la forzatura è doverosa perché c’è stato un evidente sbilanciamento nella relazione uomo-donna. Le cause sono molteplici. Nel Codice del 1865 non c’erano tanti diritti per le donne, ma alcuni già esistevano. Nell’Assemblea costituente del ’46 sono presenti 21 donne, e solo 5 nella commissione che scriveva la carta. Ma hanno dato colore alle tante norme della costituzione. Lì non servivano le quote rosa, c’era la tempra, la forza, la capacità intellettuale, lo spirito, l’amore nel fare le cose. Non era decisivo quindi il dato quantitativo ma qualitativo. Dodici diritti fondamentali ci dicono che c’è un’eguaglianza davvero sostanziale nel primo vivere (il mondo del lavoro) tra uomo e donna; quindi non è neanche immaginabile che ci possano essere differenze di principio. Ci sono però cose da migliorare. Giovanni Paolo II nel ’95 scrisse una lettera alle donne: qui donna è diritto!

La prof. Francesca Galgano ha più volte ribadito che la disuguaglianza e la disparità sono una premessa della violenza. La parità – ha continuato – è una conquista dell’età moderna. Nel concetto di violenza di genere oggi non si parla soltanto più di una violenza fisica, ma anche di una violenza psicologica e proprio di recente è stata aggiunta persino l’idea della cyber-violenza (nel mondo virtuale), violenze riconosciute perfino dal Consiglio d’Europa. L’Italia aderisce all’Europa e per il 2025 è previsto l’impegno per la realizzazione di una piena parità (retributiva, a livello decisionale, politico, delle cariche, dell’equilibrio, del tempo limite del lavoro).

E c’è anche il riferimento al contrasto della violenza. In Europa profilano, prospettano un mondo del lavoro (in ufficio, a casa per lo smart-working, nei momenti in cui si va al lavoro o si partecipa a corsi di formazione) totalmente libero da dinamiche di violenza e dinamiche discriminatorie che insieme alla molestia vengono considerate quanto di più grave possa esserci: comportamenti inaccettabili. Come mai non riusciamo a estirpare queste dinamiche della violenza? “Violenza di genere” è un termine che abbiamo relativamente da poco.

Solo nel 1981 è stato cancellato il matrimonio riparatore. Dobbiamo aspettare i pieni anni ’90 perché la violenza sessuale venga rubricato all’interno dei reati contro la persona. Negli anni ’90, grazie anche ai movimenti femministi d’Oltreoceano, si comincia a parlare di violenza di genere e si comincerà a parlare di femminicidio (delitto contro le donne in quanto donne). L’Italia ha una matrice culturale (N.d.R.: veteroculturale o anticulturale) ben precisa: la premessa ideologica è la disuguaglianza che si presenta nel contesto familiare o di coppia, nella sfera domestica, nelle relazioni di comunità (etnia, clan, religione) di tutti i giorni. Gli stereotipi vengono da molto lontano. Aristotele considerava la donna in una posizione subordinata: una misoginia che, attraverso il Medioevo, è arrivata fino al tempo moderno. La cultura romana è una società di diseguali (si pensi anche agli schiavi). Lo stereotipo verso la donna viene giustificato con gli aspetti caratteriali: la donna è più debole, è leggera e questo viene considerato un sintomo di pericolosità sociale. Ha dunque bisogno di tutela. E, relegata nel contesto domestico, trova una comfort-zone: protetta perché non ha contatto col pubblico.

La questione della violenza – ha affermato la terza relatrice, la prof. Francesca Marone – riguarda il maschile. Ed è trasversale a ceti sociali e/o professioni. Ha questioni anche di tipo psico-patologico. Gli aspetti femminili vulnerabili (nel corpo) sono diventati il pretesto per marcare una disuguaglianza che si lega all’invidia della femminilità: corpo che genera, capacità generativa femminile, della creatività femminile che rende la donna simile a Dio per certi versi. Tutti noi infatti nasciamo da un corpo di donna. Il corpo femminile è un’apertura, una ferita. Il tema della ferita è anche un motivo dominante di tante artiste. Vi erano donne che si opponevano al sistema familiare e sociale, davano noia e venivano internate e manicomializzate, soppresse.

Vi sono donne viste come corpo, incapaci di esprimere un logos, un pensiero affidabile perché prese dalla materialità, dalla corporeità, perché soggette ai cicli della natura, incapaci di gestire il potere. La discriminazione verso la donna viene da lontano, con ostracismo anche verso il sapere delle donne, le capacità delle donne di fare rete, la capacità di cura della donna che dovrebbe giustamente travalicarla. Questa visione stereotipata del femminile, nel corso della storia si è andata a definire a causa del patriarcato: dobbiamo stare sempre in guardia anche oggi. Dà luogo al machismo che si basa sulla supremazia fisica del maschile sulla donna.

Tutte le donne sono esposte alla violenza, che è l’effetto anche di anni di rappresentazioni mediatiche, espressione di una visione politica che ha permeato la nostra società: la televisione berlusconiana, i modelli di femminilità, le donne che sono state rappresentate a livello mediatico, un’idea di relazione tra i sessi che è entrata nelle case degli italiani. La violenza transita nel linguaggio, nell’educazione, fin da piccoli. Ad esempio, l’oblatività per le bambine, per le femminucce: essere pronte a perdonare, accogliere, essere ancelle del maschile o vestali del maschile. I bambini, i maschietti, invece, vengono educati alla potenza, al senso dell’avventura, all’affermazione se non addirittura alla sopraffazione fisica. L’aula scolastica diventa un luogo della riproduzione della disuguaglianza e della discriminazione a partire dal fatto che il femminile non si possa nominare. Le materie che vengono studiate vengono trattate poi sempre attraverso una visione maschile che è quella della storia fatta soprattutto di uomini. Le studiose, le artiste, le filosofe, le donne che hanno cambiato la nostra società vengono poco conosciute, studiate. E nonostante siano le donne a insegnare.

È come se ci fosse sempre una resistenza, come se si venisse connotate come femministe, divergenti, nel momento in cui si fa la scelta di portare a conoscenza anche il mondo dei saperi al femminile. Le scelte sono per questo stereotipate. La formazione di scienze, tecnologia, ingegneria, medicina, matematica, sono materie che poco vengono studiate dalle donne; anche per disuguaglianza all’interno dei contesti lavorativi, circa i ruoli. E per resistenza anche interiore: non potersi dedicare al lavoro senza sensi di colpa. Le donne sono state educate a riconoscersi nel modello patriarcale che è stato veicolato nella famiglia, nell’arte, nella letteratura, nei media, e nello stesso tempo la donna sente di esistere solo quando riconosciuta nello sguardo maschile.

La violenza simbolica significa poi anche rappresentare la donna come oggetto parziale, come non soggetto, come oggetto sessualizzato, come involucro, come pezzo di carne (la donna parcellizzata: solo bocca, solo seno); privandola della sua dimensione personologica, umana, eletta a servizio della sessualità maschile. E se la dimensione mediatica ci propone questa immagine di femminile, se ragazze e ragazzi vengono educati a questi modelli della femminilità, diviene difficile proporre una visione critica. L’Italia versa in una situazione allarmante: i dati della violenza ce lo dicono, ed è all’interno della famiglia. Per cui le donne diventano l’elemento debole della coppia perché le donne dal punto di vista lavorativo sono penalizzate, quindi spesso restano in relazioni violente. Non hanno l’indipendenza economica, la capacità di uscire dalla relazione, non saprebbero come sostenersi e quindi sono ricattabili, ancor più quando hanno dei figli.

Il sistema ha fatto grandi passi dal punto di vista normativo-giurisprudenziale e ci sono pene per chi commette il reato, ma poco si punta alla dimensione preventiva. Il personale del mondo della polizia NON è formato, quindi c’è un dissuadere, un cercare di conciliare, un non ascoltare la donna, perché c’è una veterocultura patriarcale per la quale è normale che delle cose avvengano in famiglia, le donne non si devono ribellare o denunciare e la donna deve sacrificarsi “per il bene della famiglia”. Poi c’è la vittimizzazione sulla donna di natura emergenziale, ma non porta la donna a maturare un’indipendenza (economica, lavorativa) oppure a effettuare degli interventi nelle case, nelle famiglie per verificare, mettere alla prova il versante aggressivo, il carnefice nel contesto familiare.

Quando la violenza diventa una dinamica, una consuetudine, le vittime non sono solo le donne ma anche i figli: se bambini, gli effetti sono della passività o della reiterazione della violenza come unica modalità conosciuta; se bambine che hanno assistito alla violenza spesso si vanno a collocare anche loro in modelli relazionali dove subiscono violenza, perché è l’unica modalità di rapporto che conoscono. Nel Decreto “Caivano” – discusso in un evento organizzato dalla Fondazione Polis, a Forcella, la settimana scorsa – vi sono interventi di natura punitiva, sanzionatoria che sono certamente opportuni laddove c’è il reato, però non sono l’unico antidoto a questioni di natura culturale, quindi ci vuole l’ottica preventiva, il che significa aumentare i concorsi che riguardano le forze di polizia, significa aumentare la potenza di educatori e educatrici nei nostri territori, significa introdurre nei contesti formativi dei momenti di riflessione critica sulla violenza e sul bisogno di un’etica delle relazioni che transitano anche attraverso il linguaggio, attraverso il nominare il mondo al femminile come, ad esempio, dire “professoressa”. Perché, se non nominiamo il mondo al femminile siamo anche incapaci di pensarlo questo mondo al femminile. Il linguaggio forma e riforma il pensiero.

E ancora, se i farmaci vengono tarati sui corpi maschili, se le diagnosi vengono fatte senza tener conto che la sintomatologia tra uomini e donne è diversa, NON si tutela la salute, che è un diritto fondamentale anche per le donne. Le donne sono ancora considerate di ornamento e faticano ancora a prendere la parola e a poter dire una parola nuova. A volte la quota rosa è un’esigenza di giustizia, ma non dovrebbe accadere in un paese civile. Per giustificare l’intervento femminile ci vogliono poi i caratteri dell’eccezionalità: essere bravissime, essere superiori. Perché noi donne dobbiamo essere bravissime e non brave? Agli uomini è chiesto di essere bravissimi? È importante lavorare sugli uomini affinché ci sia un cambiamento di mentalità. Gli interventi devono essere fatti non solo sulle vittime, non sono preventivi, bisogna lavorare sugli uomini affinché si interroghino sul loro desiderio che non è quello proposto dal modello patriarcale. Può essere altro ma senza sentirsi per questo meno uomini, meno padri, meno bravi rispetto al modello dominante.

Quindi: l’educazione come dimensione di umanizzazione della vita. L’educazione è il momento da cui ripartire per cambiare la mentalità e quindi per contrastare gli stereotipi e i pregiudizi. Lo speriamo.

di Angela Di Scala

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