Sopravvissuta agli inumani esperimenti nazisti condotti nel lager di Ravensbrück. Medico e psicologo, membro del Pontificio consiglio per la famiglia, della Pontificia Accademia per la Vita e consultore del Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, Półtawska fu legata a Giovanni Paolo II da una profonda amicizia intellettuale e spirituale
«Karol Wojtyła è stato — e resta — per me un padre, un fratello e un amico straordinariamente insieme nella stessa persona, ma soprattutto è stato — e resta — una grazia inventata dallo Spirito Santo, una ventata di speranza cristiana tra le tenebre del mondo, e non solo per me». Wanda Półtawska — morta il 24 ottobre — scelse queste parole per dire “sì”, con uno slancio non infiacchito dall’età, alla richiesta de «L’Osservatore Romano» di scrivere una testimonianza nel numero speciale (18 maggio 2020) dedicato ai cento anni dalla nascita del suo «padre, fratello, amico» che la chiamava affettuosamente dusia e cioè sorellina.
Wanda Półtawska — Wojtasik il cognome da nubile — avrebbe compiuto 102 anni (classe 1921, un anno più giovane di Wojtyła) il 2 novembre. Donna con stile e carattere di roccia, con modi diretti e parole essenziali di fronte a qualsiasi interlocutore. Donna libera, soprattutto. Con una storia personale che la rende oggi quasi una “icona” della travagliata storia del Novecento per la sua Polonia e la stessa Europa. Un travaglio che le cronache di questi giorni confermano tragicamente attuale.
Originaria di Lublino, Wanda ha vissuto esperienze fondanti nei circoli della gioventù cattolica, negli scout, anche nello sport, e ha studiato nel Collegio delle suore orsoline. Per poi rimboccarsi le maniche — un gesto energico che le era proprio, quasi come fosse un “segnale di battaglia” — nella resistenza polacca all’invasione nazista in Polonia avvenuta il 1° settembre 1939.
Arrestata il 17 febbraio 1941 — appena diciannovenne — è stata prima vittima di maltrattamenti nel lugubre carcere della sua Lublino e poi, dal 21 novembre dello stesso anno, ha visto il suo nome trasformato nel numero 7709 nel famigerato lager di Ravensbrück, particolarmente noto per gli inumani esperimenti sulle prigioniere (delle quarantamila donne polacche lì rinchiuse ne sono sopravvissute ottomila). Wanda-7709 è stata ridotta a cavia. Per la precisione (usando l’ignobile terminologia nazista) a “Kaninchen” — e cioè “coniglio” — per la “clinica della morte” diretta dal “dottor” Kael Gebhard, medico personale di Heinrich Himmler, capo della Gestapo. Per studiare farmaci per i soldati al fronte, alle donne venivano provocate fratture e amputazioni. Ed erano sottoposte a ogni sorta di “sperimentazioni”, quasi sempre mortali.
Vivere «l’inferno», la disumanità — ha poi ripetuto Wanda per tutta la vita dopo essere sopravvissuta «per grazia di Dio e con un motivo, evidentemente» al lager (venne liberata tra aprile e maggio 1945 dall’Armata rossa) — è stato «l’incendio» che l’ha convinta a laurearsi in medicina e in psicologia con specializzazione in psichiatria, studiando anche filosofia. Al cuore di tutto, per lei, c’era la questione della persona umana, della sua dignità. «Chi è l’uomo?» la domanda unica, di fondo, che da donna cristiana si è posta durante e dopo Ravensbrück.
Finita la guerra, Wanda si è subito trasferita a Cracovia, proprio per provare a cancellare “l’incubo”. Non le era servito a nulla mettere per iscritto le sue memorie (Ho paura dei sogni). No, l’orrore non si cancella. Ma si può trasformare. E far convivere la ruvidezza dell’esperienza di Ravensbrück in tenerezza per le persone sofferenti è, forse, la testimonianza più alta della dottoressa Półtawska. Sì, la scelta di non mettersi dalla parte del rancore vendicatore ma della ricostruzione di un popolo partendo dalla sua parte più debole: le persone malate, le persone con disabilità. Facendolo, poi, con strategie innovative per quel tempo. Tanto da metter su una “pastorale familiare” che prendeva le mosse dal momento della malattia e dalla centralità della persona umana.
Ma non era proprio “sufficiente” per lei la missione di medico e psicologo, seppure davvero “in prima linea” nella Polonia comunista del dopoguerra. Wanda cercava “qualcosa in più”, quella “scintilla della fede” nella storia degli uomini e delle donne così duramente provati da una guerra senza sconti.
A cambiarle — letteralmente — la vita ecco l’incontro con don Karol Wojtyła («Ho capito subito che era un sacerdote santo e gli ho chiesto di essere il mio confessore»). Per un sodalizio spirituale di amicizia durato oltre mezzo secolo, tessuto di comunione, incontri, lettere, preghiera. Un sodalizio vivace spiritualmente e intellettualmente, e non interrotto, anzi rilanciato in modo nuovo, dall’elezione di Wojtyła al Pontificato il 16 ottobre 1978 («perché l’amicizia c’è o non c’è e se c’è resta per sempre»). Un sodalizio, ha confidato Wanda, che neppure la morte ha interrotto perché — dopo essergli stata accanto fino a quel 2 aprile 2005 (leggendogli testi spirituali e letteratura polacca: le passioni del suo amico morente) — convintissima che la fede dà la certezza che le autentiche relazioni umane non si spezzano.
La conoscenza con don Wojtyła è divenuta prima stima e poi amicizia in fraternità a partire da un vero e proprio “esercizio spirituale” quotidiano e dalle questioni più gravi che toccano la vita dell’uomo. A determinare una collaborazione “sul campo” è stata la promulgazione in Polonia, nel 1956, della legge sull’aborto. Wanda non hai mai usato giri di parole: «Nel lager di Ravensbrück ho visto i nazisti usare spregiudicatamente come cavie le donne incinte e anche buttare i neonati nei forni crematori e mi sono ripromessa che, se fossi sopravvissuta, avrei difeso la vita in ogni modo, soprattutto dei bambini, senza eccezioni». Per le sue posizioni, espresse in modo forte, contro l’aborto — radicate proprio nell’esperienza omicida dei lager — non sono mancati forti contrasti. Ma è stata proprio quella legge a «impressionare» i due amici: «Lui come sacerdote, io come medico iniziammo una collaborazione per un lavoro comune» per contrastarla con i fatti. Ecco la praticità, la consapevolezza di una donna e di un uomo che avevano vissuto sulla loro pelle la guerra. Tanto che il giovane sacerdote aveva messo a disposizione il suo piccolo appartamento come punto di incontro per le coppie. Pastorale familiare senza piani pastorali complessi, dunque. Messa su alla buona, senza strutture, da quella dottoressa tenace e da quel sacerdote «pronto ad ascoltare con capacità rara» che scattavano all’unisono per provare a salvare la vita di un bambino — «fosse anche uno solo» — «salvandone, delicatamente, anche la famiglia».
Già, la famiglia. In Wanda, nel marito Andrzej, filosofo, e nei loro quattro figli «Karol Wojtyła ha trovato una seconda famiglia, quella famiglia che lui aveva perduto giovanissimo: prima la mamma, poi l’amato fratello medico Edmund poi, più tardi, anche il padre. Era rimasto solo negli affetti familiari». Una intimità semplice di vita familiare vissuta in modo particolare, nei periodi estivi, nella Villa pontificia a Castel Gandolfo. «Ho vissuto per tanti anni con una gamba a Cracovia e l’altra gamba a Roma» le sue parole. Sono «le persone a me più care» ebbe a confidare Papa Wojtyła, ricordando in particolare «il primo Natale a Roma». Di «quella famiglia ricordo la discrezione e la levatura culturale» ricorda Arturo Mari, fotografo dell’Osservatore, che ha vissuto in prima persona quella vicinanza.
Senza dubbio per Wanda “il segno” più forte di questa amicizia, «straordinaria perché semplice e semplice perché straordinaria», è il momento della malattia, frontiera dalla vita. Un cancro. Lei ha raccontato così lo stile spirituale, «mistico», scelto da Wojtyła «per provarle tutte» perché guarisse: «L’amicizia non ha mai momenti dolorosi. Nel 1962, quando il vescovo Karol era a Roma per il Concilio Vaticano II, io mi sentii male e fu informato con un telegramma da mio marito che ero in ospedale a Cracovia. Su suggerimento di don Andrzej Maria Deskur, diventato cardinale, si rivolse direttamente a padre Pio da Pietrelcina chiedendogli preghiere per me ma senza fare il mio nome. In quel periodo, poi, in Polonia non sapevamo nulla — almeno io — di quel santo frate cappuccino nel sud dell’Italia. Solo a guarigione avvenuta ho saputo che Karol aveva scritto a padre Pio ed ho provato un brivido, che continua ancora oggi, nello scoprirne il contenuto. Per dire la verità la mia guarigione, invece di farmi mettermi in ginocchio per ringraziare Dio, ha provocato in me quasi una ribellione: ero spaventata dalla potenza di Dio e anche dal fatto che dipendiamo totalmente da Lui». Come a dire: cosa vuole ora Dio da me per avermi guarita? Quale missione mi affida?»
Un’ampia raccolta di pensieri e lettere con Karol Wojtyła è stata curata da Wanda e pubblicata in Italia con il titolo “Diario di una amicizia. La famiglia Półtawski e Karol Wojtyła” (edizioni San Paolo).
Nel pieno dell’esperienza del Sinodo, la testimonianza di una donna di oltre cent’anni — sopravvissuta al sanguinoso Novecento e alle ideologie del nazismo e del comunismo — ha un’attualità sconcertante. Assai lontana da soggezioni clericali (ma di cosa può aver “paura” una cavia di Ravensbrück?), ha collaborato da protagonista, con quel “genio femminile” caro al suo amico, alla stesura di testi e documenti di alto livello. In uno stile di reciproco scambio di idee, progetti, visioni. Su questioni centrali, urgenti, come la persona umana, la famiglia, la sessualità. Ci sono anche l’intelligenza e il cuore di Wanda nell’apporto di Wojtyła all’enciclica Humanae vitae di Paolo VI. Con passione convinta Wanda non ha risparmiato energie nel rilanciare, a ogni livello, i contenuti di quell’enciclica, come anima dell’Istituto di teologia per la famiglia co-fondato a Cracovia con Wojtyła che — da sacerdote, vescovo e cardinale arcivescovo — ha sostenuto — non a parole — il ruolo dei laici e delle donne ovviamente.
Dal saggio Amore e responsabilità ai testi di Wojtyła, prima e dopo l’elezione al pontificato, Wanda ha incarnato, anche come docente universitaria, tutta quella «teologia del corpo» che afferma chiaramente come la stessa «trasmissione della vita deve essere un progetto di Dio» da scoprire. E significativamente, nella Curia romana è stata membro del Pontificio consiglio per la famiglia dal 1983, membro della Pontificia accademia per la vita dal 1994, e anche consultore del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari.
di Giampaolo Mattei – Vatican News