Le donne di Israele e Palestina manifestano unite per la pace
Dal 2014 l’associazione Woman Wage Peace opera in Israele per la pace nell’area. L’appello: “Donne di tutto il mondo, insieme possiamo fermare questa follia”
Ci sono donne israeliane e palestinesi votate alla pace, abituate a marciare insieme. Senza guardare alla fede (ebrea, musulmana, cristiana), senza guardare alla politica (c’è chi vota a destra, chi è moderata, chi sta a sinistra). In comune hanno il fatto di non sentirsi rappresentate da istituzioni e leader che ripropongono sistematicamente un’agenda di guerra in un’area del mondo assetata di pace. Sono le donne di Woman Wage Peace, associazione fondata in Israele nel 2014 per combattere gli scenari di odio e che adesso realizza iniziative comuni con le militanti palestinesi di Women of the Sun, associazione indipendente nata nel 2021 con circa mille iscritte.
Proprio tre giorni prima degli attacchi del 7 ottobre scorso, centinaia di donne israeliane e palestinesi, tutte vestite di bianco e con ombrelli bianchi, si erano riunite attorno al Museo della Tolleranza di Gerusalemme, chiedendo la fine di un conflitto che attanaglia i loro popoli da decenni: vestivano il colore della pace, e intonavano slogan come “Chiediamo la pace” e “Basta uccidere i nostri figli”.
“Fino ad oggi gli uomini al potere tra israeliani e palestinesi non hanno creduto che alla guerra. Noi donne, invece, siamo una cosa nuova e sappiamo ascoltarci reciprocamente” Queste le parole di Amira Zidan, tra le organizzatrici della marcia delle donne del 2017, in cui per due settimane il corteo di donne percorse una simbolica “strada per la pace” per chiedere ai rispettivi leader di raggiungere un accordo politico che metta fine alle ostilità tra i due popoli:
Pascale Chen, coordinatrice di Women Wage Peace, ha dichiarato: “Vogliamo lanciare un appello congiunto da parte delle madri israeliane e palestinesi alle leadership di Israele e Palestina affinché riprendano i negoziati per arrivare finalmente a un accordo diplomatico”.
Appena due giorni dopo, i terroristi di Hamas hanno rapito Vivian Silver, 74 anni, attivista pacifista canadese-israeliana che ha dedicato la sua vita ai diritti dei palestinesi, fondatrice di Women Wage Peace e leader del network Alliance for Middle East Peace.
Neppure la carneficina del 7 ottobre, in cui il 20enne Laor, figlio di Michal Halev, una delle leader del movimento, è caduto sotto la furia degli aggressori, ha modificato il quadro e le convinzioni. Anzi, ha rafforzato la volontà di queste donne e della loro leader in lacrime di uscire dal vicolo cieco preparato dagli uomini. “Fermatevi, la guerra non è la risposta – questo il toccante appello di mamma Michal –. Israele, le madri di Gaza, il popolo ucraino, tutti stiamo attraversando l’orrore“. Il comunicato ufficiale dell’associazione suggerisce amore, non certo odio: “Anche oggi, tra il dolore e la sensazione che la fiducia nella pace sia crollata, tendiamo una mano di pace alle madri di Gaza e della Cisgiordania. Noi mamme insieme alle donne di tutto il mondo dobbiamo unirci per fermare questa follia“.
Il 13 ottobre, in una intervista per il quotidiano israeliano Haaretz, la co-direttrice del movimento palestinese Women of The Sun Layla Sheikh ha dichiarato: “Vogliamo essere oneste e aperte, ma dobbiamo anche stare attente perché ci sono persone nella società palestinese che non approvano ciò che facciamo (il nostro lavoro femminista e la nostra partnership con Women Wage Peace). Ma come donne, come madri e come palestinesi, dobbiamo dire la nostra verità”.
Da sempre queste donne di pace ricordano ai leader israeliani e palestinesi la necessità di avviare negoziati per trovare una soluzione al conflitto. Una missione che sarebbe decisamente più credibile grazie a una presenza femminile obbligatoria nelle delegazioni al tavolo. “Ai rispettivi governi continuiamo a domandare, come facciamo da anni, che in ogni trattativa, in ogni tavolo, in ogni posto dove vengono prese le decisioni sulla questione si sieda anche una donna, come prevede la risoluzione Onu 1325 – spiega l’attivista israeliana Barak Wolfam a Repubblica.it –. Questo conflitto non si risolverà mai con la guerra ma con un accordo. Ma prima di tutto chiediamo che gli ostaggi vengano liberati”. Basta sangue. Israeliane e palestinesi non lo tollerano più.