Quando una persona con cui si è condivisa una vita intera, viene meno è come se morissimo un poco anche noi con lui
Il 2 novembre abbiamo celebrato la commemorazione di tutti i defunti. Un’altra festa liturgica che si radica nelle verità di fede della comunione dei santi, della remissione dei peccati e della resurrezione della carne, ma più semplicemente ha un forte respiro famigliare perché la morte, con inevitabile drammaticità, riguarda ciascuno di noi e in modo più o meno traumatico, irrompe nelle nostre case. Celebrare la morte come la Chiesa fa con sano realismo sta diventando sempre più contro tendenza. Il nostro mondo ci propone di vivere come se la morte non esistesse. Lo stesso antico adagio latino carpe diem (“cogli l’attimo”) non è sprone a vivere con intensità il momento presente, quanto a cancellare la nostra dimensione di finitezza.
L’impressione è che questo atteggiamento censorio ci stia indebolendo. Di fronte alla morte di una persona cara restiamo vittime inermi, intontiti dal dolore e dalla disperazione. Sia ben chiaro, da sempre è così, è la verità del nostro essere uomini e donne che si manifesta pienamente e la fede non ci sottrae alla sofferenza del distacco. Quando una persona con cui si è condivisa una vita intera, viene meno è come se morissimo un poco anche noi con lui.
Ci pare che il mondo non abbia più senso senza quella persona e non ci capacitiamo che non possiamo ascoltare ancora la sua voce, scambiare con lui gesti d’affetto. È nel riconoscere l’inevitabile verità di questa esperienza che la Chiesa ci invita a guardare a Gesù. Lui che, nella pienezza della sua umanità, è scoppiato a piangere di fronte al sepolcro dell’amico Lazzaro; lui che, nel Getsemani non ha trattenuto le lacrime per la passione e la morte che lo attendevano, è lo stesso che, come Figlio unigenito del Padre, sulla croce ha vinto la morte per sempre.
È dalla Resurrezione di Gesù che noi cristiani possiamo “celebrare” la morte e arrivare, con le parole di San Francesco a chiamarla “sora nostra morte corporale”. Quanto sembra scandaloso chiamare “sorella” la morte, eppure lo è perché noi crediamo che la vita, attraverso di essa, non è tolta, ma trasformata. La nostra è una speranza certa, che pure subisce i colpi della paura e dello sconforto, soprattutto quando avviene in modo violento e prematuro, eppure possiamo aggrapparci ancora una volta alle parole di Gesù e come ha fatto lui sulla croce, affidarci al Padre, che ci prende per mano dando compimento alla sua promessa di eternità. In questa dimensione di fede è bello ricordare che da sempre la Chiesa chiama “dies natalis” il giorno del decesso, a significare che davvero quella è una nuova nascita ed in quel giorno, infatti, sono festeggiati i santi canonizzati.
Quando una famiglia, insieme alla comunità parrocchiale, si riunisce per celebrare l’Eucarestia nell’anniversario di un caro defunto, sta in qualche modo vivendo un suo speciale compleanno. È l’occasione propizia per una preghiera che si fa ancora più intensa e unisce cielo e terra. In quel giorno il ricordo si fa più vivo e, seppure magari accompagnato dalla nostalgia, si fa strada un sentimento di gratitudine per tutto il bene ricevuto, per quello offerto, per quello condiviso. Nella celebrazione liturgica per le persone che vengono esplicitamente nominate, noi offriamo sull’altare i frutti di bene della loro vita affinché lo Spirito Santo li renda ancora fecondi. È così che la morte, fin d’ora, non ha l’ultima parola, mentre nel cuore possiamo ripeterci la promessa di Gesù: “Vi prenderò con me perché dove sono io siate anche voi”
di Giovanni M. Capetta