Nel Paese islamico del Golfo, c’è un edificio che offre ai cattolici di Muscat un altare dove pregare. E nel complesso cinto da mura, trovano spazio anche altre chiese di confessioni cristiane
Ore sei. L’alba di Muscat, capitale dell’Oman, è calda e umidissima. Le strade sono ancora deserte, fatta eccezione per la complanare che porta a Ghala, la zona industriale a sudovest della città. Non è il viavai di impiegati e operai, è ancora troppo presto, ma quello dei cattolici di zona che, di primo mattino, ogni giorno, si mettono in macchina per andare a messa. Uomini, donne e bambini. Prima che il sole spazzi via la notte, la chiesa dello Spirito Santo è quasi piena.
La convivenza tra tre dottrine dell’islam
Sorprende questo spaccato di quotidianità omanita. Il Paese è un sultanato che adotta l’islam come religione di Stato. I non musulmani sono una piccolissima minoranza, circa il 5% della popolazione, ma al riguardo non ci sono statistiche istituzionali. Il governo locale non conta neppure, almeno in via ufficiale, quanti sono gli ibaditi, i sunniti o gli sciiti.I sultani della dinastia Busaidche si sono succeduti negli ultimi tre secoli hanno educato i sudditi all’idea che, in Oman, le tre dottrine dell’Islam potessero convivere in armonia senza bisogno di sapere chi, numericamente, prevale. A scuola, per esempio, agli insegnati è espressamente chiesto di non fare proselitismo a favore di un gruppo islamico piuttosto che di un altro. È noto, tuttavia, che la maggioranza pratichi l’Ibad, la versione più liberale (e sobria) dell’islam.
La cittadella della cristianità
L’edificio che offre ai cattolici di Muscat un altare attorno a cui pregare sorge all’interno di un complesso, delimitato da mura in cemento, in cui trovano spazio anche altre chiese: una siriaca giacobita, una greca ortodossa, unaprotestante e una siro-malankarese. È un villaggio della cristianità, insomma, nel cuore di una città che conta più di 1250 moschee. Il secondo dopo quello fondato nel 1977 a Ruwi, sul versante orientale. Bisogna spingersi oltre il parcheggio per intercettare nell’anonimità della struttura, percepita dall’esterno come un sito industriale qualsiasi, i simboli del cristianesimo. Un enorme rosario appeso ai pali di un tendone sovrasta l’ingresso della chiesa, sullo sfondo di una rappresentazione della grotta di Lourdes, illuminata a led colorati, dinanzi a cui i fedeli si fermano per un momento di raccoglimento (qualcuno anche per un selfie) prima di togliersi le scarpe ed entrare. “L’unica cosa che questa chiesa non potrà mai avere – sottolinea il parroco, George Vadukkut, cappuccino originario del Kerala – sono campane e campanili”.
La messa in sette lingue per manager e operai
La celebrazione è in inglese. Ma sullo scaffale del vestibolo ci sono bibbie e libretti nelle lingue più disparate. Le messe, qui, si tengono anche in konkani, tamil e malayalam, le lingue di origine indiana più parlate nel sud est asiatico. Come pure in tagalog e singalese. Due volte al mese in spagnolo. Ogni giovedì, la sera, persino in arabo. Due bambine, Marlin e Ashline, una di sette e l’altra di nove anni, servono una funzione semplice e veloce. Trenta minuti. Solo letture e preghiere, niente omelia. Per loro, dopo, c’è la scuola. Per tutti gli altri, il lavoro. Tra i banchi ci sono operai, impiegati e infermiere. Anche qualche occidentale in tailleur, manager di stanza a Muscat. Frances Perera, passaporto canadese e srilankese, è la moglie di un ex dirigente della banca Hsbc, oggi in pensione, che riordina la sagrestia dopo la messa. “E’ una benedizione – dice – avere la possibilità di professare liberamente il nostro credo in questo angolo del Medioriente”. La donna racconta con orgoglio della vivacità della comunità. «A Pasqua e Natale è stracolma non solo la chiesa – spiega – ma anche l’atrio e il parcheggio esterno».
Il ministro degli affari religiosi: “Che il cuore parli alla mente”
La “cittadella” sorge dal 1987 su un terreno messo a disposizione dall’allora sultano, Qaboos Bin Said, che tre anni dopo regalò ai cattolici un organo a canne, l’unico del Vicariato d’Arabia.
L’Oman, ci spiega il ministro per gli affari religiosi, Mohammed Bin Said Bin Khalfan Al Mamari, «è da generazioni terra di pace e tolleranza». Forte di un’antica storia di scambi commerciali, che manca agli altri vicini, è aperta al diverso. Approccio che, applicato in politica, consente al governo di mantenere buoni rapporti con entrambe le sponde del Golfo, di essere amico dell’Occidente senza apparire anti-iraniano. “Crediamo nel dialogo capace di creare consapevolezza sulle similitudini tra i popoli – aggiunge il ministro-imam – su ciò che unisce, non su ciò che divide, e nella capacità degli uomini di far parlare il cuore, dove nasce il perdono, alla mente». Dichiarazione che, sullo sfondo di una guerra atroce, che si combatte a tremila chilometri da Muscat, suona come un appello alla ragionevolezza della pace. * Avvenire