Quando si entra in un cimitero è come se varcassimo la soglia di un santuario che ci invita a modulare il nostro rapporto con il tempo: non siamo eterni.
Iniziato con la commemorazione di tutti i defunti, il mese di novembre è quello in cui, tradizionalmente, con più assiduità, si fa visita alle tombe dei propri cari. Anche la stagione autunnale, sembra indurci ad una disposizione d’animo più capace di considerare la caducità del nostro vivere: gli alberi si spogliano delle foglie, viene buio più presto, in alcune regioni la nebbia, con la sua indefinitezza, diventa protagonista. Nelle grandi città, abbiamo perso un contatto più diretto con la natura e questo rischia di assuefarci a ritmi resi sempre uguali dalle compensazioni artificiali della tecnologia, ma esistono dei luoghi, i cimiteri, che inevitabilmente ci propongono un’esperienza che ha ancora un grande valore.
Spesso le visite sono occasioni perché le famiglie si riuniscano e così sciolgano la nostalgia nel ricordo riconoscente dei propri cari. Talvolta i bambini più piccoli paiono non capire, ma crescendo, se non viene interrotta, quella consuetudine assume sempre più significato. Quando si entra in un cimitero è come se varcassimo la soglia di un santuario che ci invita a modulare il nostro rapporto con il tempo: non siamo eterni, molti prima di noi ci hanno preceduto e anzi, “siamo nani sulle spalle di giganti” – secondo un detto medievale – perché tutti beneficiamo dell’eredità di sapere e conoscenza di chi ha vissuto prima di noi. Nell’andare verso le tombe dei famigliari, è bene saper camminare come pellegrini (non turisti!) e assaporare quel silenzio eloquente di tanti nomi e volti anonimi che pure possono comunicarci un messaggio. Molti, forse, conservano la reminiscenza scolastica del carme Dei Sepolcri in cui i versi foscoliani evocano quanto siano significativi i monumenti funebri per la memoria di un popolo, ma anche le persone meno acculturate entrando in un campo santo possono sperimentare emozioni e sentimenti che fanno parte integrante del nostro essere uomini.
A Milano, a Roma, ma anche in tante altre città, vi sono cimiteri monumentali in cui è possibile rendere omaggio ai protagonisti della storia con la S maiuscola, ma, a pensarci bene, ogni lapide indica la storia di una persona che con la sua vita ha dato un contributo che solo essa poteva dare. Bisognerebbe camminare per quei viali con passo lento, con gli occhi che incrociano nomi e date incise sulle tombe, volti seri o sorridenti che segnano un tratto di esistenza vissuta. I volti dei morti si guardano sempre con quella pietà che smuove l’animo e un po’ lo interroga portando in superficie l’essenzialità degli affetti e delle relazioni. Il cimitero è un luogo che ci sprona a convincerci che nella vita non c’è nulla più importante dell’amore.
Sulle tombe dei nostri cari deponiamo spesso dei fiori. Sono il segno di una bellezza che, per quanto effimera, lascia il segno, è emblema della gratuità della relazione che ci ha legati alle persone sepolte in quel luogo. Un fiore o una pianta, magari secondo le preferenze che un tempo reciprocamente si conoscevano, parlano da sé, sono già una preghiera. Dicono un legame, raccontano una storia, ricordano un momento vissuto insieme, intensamente, è come se dicessero al defunto: “il tuo amore vive ancora nel mio cuore e continuo a volerti bene”.
I cristiani vanno al cimitero con la fede in Gesù e con la speranza interrogante nella risurrezione. “Credo la risurrezione della carne e la vita eterna”. Queste parole del Simbolo apostolico le pronunciamo sempre con un certo timore. Sono parole che agitano e possiamo seriamente pronunciarle solo affidandole al Signore e si accompagnano alla domanda incessante: “E’ vero, Signore, che ci hai promesso la vita per sempre? Che cosa rimarrà di loro, di noi, al di là della cenere del corpo?”. Una nonna, sazia di giorni, mi domandava spesso: “ma con quale corpo risorgeremo?” Un corpo glorioso, certo, ma mi è sempre sembrato presuntuoso voler dare una risposta. Ciò che è certo è che rimane la fecondità dell’amore che ha donato vita, ha ideato percorsi nuovi, ha lasciato segni di bellezza, ha risposto all’invito del Signore di fare comunione con Lui. Questo ci dice la Parola di Dio.
Quando siamo davanti alla tomba dei nostri cari per prima cosa pronunciamo di nuovo quelle parole del Simbolo apostolico. Poi possiamo cominciare a raccontare come in un dialogo le cose belle che abbiamo vissuto insieme: l’amore condiviso, le parole di speranza ricevute e date, i momenti di fatica vissuti insieme, le gioie contagiose. Così, da quelle ceneri a cui si è reso omaggio, estraiamo nuova speranza per continuare nel segno di una relazione che comincia a durare per sempre nel grande mistero della vita di Dio.
di Giovanni M. Capetta – Sir