“Le narrazioni bibliche […] sono uno specchio che fa vedere cosa accade in chi legge […]. Il racconto, come uno specchio appunto, ci permette di vedere ciò che diversamente mai vedremmo: il nostro volto” (S. Fausti).
Quanto spesso ci accade di sentire frasi che iniziano con “io sono” oppure “tu sei” seguite da due o tre aggettivi al massimo: pochi!
Autodefinirci o definire gli altri attraverso categorie limitate ci semplifica il pensiero e la vita o, meglio, ci rassicura: è difficile pensarci persone complesse e guardare a tale complessità dando un nome ai molti, diversificati volti della nostra interiorità. Forse, in fondo, abbiamo timore che la vera vastità di quanto ci portiamo “dentro” ci faccia perdere il controllo… Eppure, siamo così belli e ciascuno unico proprio perché come labirinti.
Mi pare emblematico di ciò il racconto dei dieci lebbrosi guariti da Gesù che la Liturgia ci ha riproposto ultimamente (Lc 17, 11-19). Mi chiedo: questo Vangelo va per forza interpretato in senso storico-letterale? Per cui si tratterebbe necessariamente di dieci, tra uomini e donne, diversi… O i dieci potrebbero rappresentare altrettante sfaccettature di una stessa personalità?
Provo a percorrere con voi questa seconda via, seguendo il filo di una – credo – realistica immaginazione. Naturalmente non ho la benché minima intenzione di proporre un’esegesi biblica alternativa, che metta in discussione lo studio critico del testo. Piuttosto desidero esplorare cos’altro potrebbe dire questo racconto alla e della nostra interiorità.
Dunque: uno dei lebbrosi torna indietro, gioioso, a ringraziare. È la parte di noi che riconosce di aver incontrato autenticamente Gesù oppure quella che, quand’anche ritenesse di non averne fatto esperienza, perlomeno sa riconoscere il dono della vita, magari della salute. Il dono delle relazioni, quelle belle. Il dono di sentirsi talvolta, fortunati; o addirittura “miracolati” in un incidente, in una situazione difficile… Quella parte di noi che dice a voce alta “Grazie a Dio” anche quando, magari, non ha veramente intenzione di pregare o pensare a Dio, tuttavia, trova nell’espressione la simbologia adatta a comunicare il sollievo del proprio cuore.
Di questo primo lebbroso, sappiamo per certo che torna indietro a ringraziare. Ma gli altri nove, che Gesù invia dai sacerdoti, alla fine, cosa decidono di fare? Il Vangelo ci lascia in sospeso.
Immagino che almeno uno ci vada a presentarsi ai sacerdoti: come quella parte di noi che cerca – ora legittimamente, ora in maniera sbilanciata – lo sguardo, il riconoscimento, la conferma altrui.
Suppongo che quanto meno tre possano fermarsi a un certo punto del cammino, momentaneamente incapaci di andare in una direzione o nell’altra. Di essi, uno potrebbe essere quello spicchio di noi che non ha fiducia nelle persone e nelle situazioni da incontrare: pensa che il mondo, in fin dei conti, vada sempre e tutto allo stesso modo; ha perso la speranza nel cambiamento.
Un altro, quel lembo di noi diviso tra emozioni vecchie e nuove, tra il conosciuto e lo sconosciuto. Dove il desiderio si scontra con dubbi, paure, sensi di colpa. E il senso di responsabilità verso se stessi rischia di essere confuso con l’egoismo.
Un altro ancora, è forse quel pezzo di cuore che riesce ad aprirsi alle chances… Il velo degli occhi, cadendo, ha lasciato intravedere più d’una strada valida e possibile. Egli ha “fame” di tutte queste esperienze ma non può consumarle contemporaneamente. Così si ritrova a non saper scegliere. Si sente bloccato.
Suppongo che il sesto lebbroso possa andare in cerca di altri profeti e ulteriori segni: è quella parte di noi, la più ferita, per cui niente è mai abbastanza. “Bucata” come un colapasta, la sua misura non è mai colma, mai soddisfacente ai suoi stessi occhi.
Il settimo sarà forse quel tratto di noi in cerca di Sé: in fondo in fondo, non sa chi è… Affronta le domande – antiche e sempre nuove – sull’esistenza, sul senso della vita e della propria presenza al mondo, sul significato delle esperienze provate…
L’ottavo potrebbe essere un segmento che torna a contagiarsi, non rendendosi conto che la grazia della guarigione ricevuta va custodita, difesa, strenuamente se necessario, e spesso richiede un cambiamento di consistenza nello stile di vita.
Il nono è testimonianza silenziosa: quell’angolo portatore in sé di una scintilla di luce (divina). Luce che, come afferma un altro brano di Vangelo, “non può restare nascosta”… (cfr Mt 5, 15-16). Gli altri la vedono, anche mentre lui stesso ancora non la riconosce.
Direi che il decimo è il più “ricco” e più importante: quella parte di voi, anche di me, che queste righe non son riuscite a rintracciare… quel pezzo che ciascuno potrà completare continuando a guardarsi dentro, attingendo allo stile degli sguardi di Gesù, volto di Dio e volto dell’uomo (tutto intero) pieno, realizzato, anche a “dispetto” delle immagini di pienezza mondana che tante, troppe volte ahinoi, finiscono per indurre a compulsioni che lasciano il vuoto.
“Non esiste una scorciatoia spirituale che possa evitarci di affrontare la realtà psichica della nostra vita. Cristo è disceso tra gli uomini perché noi trovassimo il coraggio di discendere nella nostra realtà” (A. Grün).
di Viera Lubrano Lobianco