La figlia dello statista ucciso ha ricevuto il premio Primo Levi per il suo impegno nella “giustizia riparativa”. “Gli ex Br sono diventati amici difficili e preziosi”.
«Non si ripara l’irreparabile, ma abbiamo attraversato insieme i nostri inferni, io e i miei amici difficili e improbabili, i miei amici preziosi»: Agnese Moro parla di chi ha ucciso suo padre, Aldo Moro, 45 anni fa, nel silenzio assoluto del Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, a Genova, lunedì 11 dicembre, dopo aver ricevuto dalle mani del sindaco Marco Bucci il Premio internazionale Primo Levi, istituito da Piero Dello Strologo presidente del Centro Culturale Primo Levi di Genova nel 1992, e assegnato ad Agnese Moro per il suo impegno nella “giustizia riparativa”.
E il primo ad alzarsi in piedi, il primo di tutti, poi seguito da tutta la sala, per una commossa standing ovation, è Franco Bonisoli, ex brigatista, proprio uno dei suoi “amici difficili e improbabili”, che rapì l’ex presidente del consiglio e presidente della Dc.
«L’incontro è molto importante – dice Moro – perché, fino ad allora, vivevo in un mondo popolato di fantasmi. Al primo incontro, invece, mi trovai di fronte a una persona: fino ad allora ero circondata da fantasmi giovani, invece lì c’era un vecchio. E il dolore, ho capito, non era solo mio. Mi disse “Hai una faccia che non si può vedere”, perché gli ricordavo mio padre. È strano il loro desiderio di incontro. Si sono fatti decine di anni di galera brutta, eppure mi vogliono incontrare. La giustizia riparativa è fatta così: raccontare, rimproverare e imparare a disarmarsi, per ascoltare. E ci fa togliere le maschere: quelle che ci hanno intrappolato per decenni: loro, quelle di cattivi per sempre. Noi, quelle di vittime per sempre. La giustizia riparativa si occupa dell’irreparabile».
«Non si ripara l’irreparabile, ma abbiamo attraversato insieme i nostri inferni, io e i miei amici difficili e improbabili, i miei amici preziosi»: Agnese Moro parla di chi ha ucciso suo padre, Aldo Moro, 45 anni fa, nel silenzio assoluto del Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, a Genova, ieri sera, dopo aver ricevuto dalle mani del sindaco Marco Bucci il Premio internazionale Primo Levi, istituito da Piero Dello Strologo presidente del Centro Culturale Primo Levi di Genova nel 1992, e assegnato ad Agnese Moro per il suo impegno nella “giustizia riparativa”.
«L’incontro è molto importante – dice Moro – perché, fino ad allora, vivevo in un mondo popolato di fantasmi. Al primo incontro, invece, mi trovai di fronte a una persona: fino ad allora ero circondata da fantasmi giovani, invece lì c’era un vecchio. E il dolore, ho capito, non era solo mio. Mi disse “Hai una faccia che non si può vedere”, perché gli ricordavo mio padre. È strano il loro desiderio di incontro. Si sono fatti decine di anni di galera brutta, eppure mi vogliono incontrare. La giustizia riparativa è fatta così: raccontare, rimproverare e imparare a disarmarsi, per ascoltare. E ci fa togliere le maschere: quelle che ci hanno intrappolato per decenni: loro, quelle di cattivi per sempre. Noi, quelle di vittime per sempre. La giustizia riparativa si occupa dell’irreparabile».
E il sindaco Bucci ha raccontato quel suo giorno di marzo, il 16, del 1978, quando Moro venne rapito e cinque uomini della sua scorta uccisi: «Studiavo al liceo D’Oria – parla e guarda negli occhi Agnese Moro – uscimmo da scuola e ci sedemmo sui gradini delle Caravelle, avevamo tutti un senso di disperazione: pensavamo a cosa ne sarebbe stato di noi, se la violenza poteva avere il sopravvento?». A indagare le origini, nella Torah, della giustizia riparativa è stato Davide Assael, presidente dell’associazione Lech Lechà, che ha indicato come il filosofo medievale Maimonide avesse già spiegato che «la giustizia serve per liberare le parti”, altrimenti bloccate nel momento del delitto. E, introdotta dal presidente del Primo Levi Alberto Rizzerio, è intervenuta Claudia Mazzucato, docente di Giustizia riparativa e promotrice del progetto “L’incontro” che ha messo in contatto negli anni vittime e autori di delitto, non solo in Italia, ma anche in Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Israele, Belgio e Francia. Cita i “Sommersi e i salvati” di Primo Levi e il suo indagare «tutte le parti, non solo le vittime» e riconosce a Moro la «forza mite di essere chiamata e rispondere». Agnese Moro ha sottolineato l’onore di ricevere il Premio dedicato a Primo Levi: «Ammiro tanto il suo coraggio di non cedere mai alla tentazione della semplificazione – ha detto – Levi non ha mai escluso neppure un atomo, neppure il più contraddittorio o il più scomodo. Una virtù, la complessità, di cui abbiamo assoluto bisogno, in un mondo che ama i leader, le persone strafighe».
Ringrazia i mediatori del progetto “L’incontro”: «Noi vittime eravamo squinternati, danneggiati dal nostro dolore – dice – sono grata a loro, ma anche ai miei compagni di viaggio difficili». Perché, spiega Moro, è tornata a respirare: «Il mio unico merito è aver varcato la soglia, aver accettato di provarci – dice – dopo trentuno anni dalla morte di mio padre. Mi sono accorta, durante un incontro, che era da allora che non facevo più un respiro completo. E ho anche ritrovato un “prima”. Perché guardavo le foto di mio padre, con me piccola, e le vedevo macchiate di sangue. I miei amici improbabili mi hanno restituito il conforto di quelle fotografie».
Agnese Moro racconta la storia di due piantine. La prima, quella che le ha portato un ex brigatista, la prima volta che si sono incontrati. La seconda è quella che nasce «nelle crepe dei marciapiedi di Roma: quella sono io, un po’ stortignaccola, ma che vive». E conclude: «In me c’era una goccia d’ambra in cui era intrappolato un insetto ferito – parla, piccola, e fortissima, nella sua sedia al centro dell’enorme salone del Ducale – ora, al suo posto, c’è un luogo di quiete in cui convivono mio padre, Aldo Moro, e i miei amici improbabili».
*Repubblica In una precedente occasione Maria Agnese Moro aveva dichiarato: “La mia vita, e quella della mia famiglia, è stata toccata in passato da un episodio molto grave: il rapimento di mio padre, l’uccisione della scorta e poi la sua. Tutto questo ha provocato qualcosa nella mia vita che non si è risolto neppure con i risultati ottenuti attraverso la giustizia penale. […]. Il mio cuore ferito, il mio dolore, i miei sentimenti è impensabile che possano essere curati sapendo che altre persone stiano soffrendo, perché il carcere è questo: è sofferenza. La loro sofferenza – ha proseguito – non ha mai risolto o cancellato il dolore per l’assenza di mio padre e la rabbia perché qualcuno aveva deciso che io non dovessi più averne uno. Poi grazie ad una persona che mi è venuta incontro, Padre Bertagna, ho cambiato rotta e ho capito che il silenzio non raggiunge lo scopo della guarigione”.
di Michela Bompani – Repubblica
Foto di Bussalino – Repubblica