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Non c’era posto per loro

Sta a noi liberare spazio nel cuore e tempo delle nostre giornate perché questo bambino possa essere accolto

“Non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7). Forse non sempre poniamo sufficiente attenzione a queste parole nel racconto della nascita di Gesù. Esse, invece, sono tutt’altro che un dettaglio e ci interpellano evidenziando l’attualità del mistero dell’Incarnazione. Il Dio della storia accetta di non venire accolto fin dal suo nascere. Giuseppe e Maria non trovano neanche uno spazio in quei caravanserragli dell’epoca in cui uomini e bestie passavano la notte. Maria incinta del Creatore è costretta a partorire da sola, in un luogo di fortuna.

Se fossimo stati lì avremmo riconosciuto in quella nascita l’inizio della nostra redenzione? E oggi ancora, siamo davvero capaci di fare posto a Gesù che chiede di essere protagonista nelle vite delle nostre famiglie? Forse, come moderni albergatori di Betlemme, rischiamo ogni anno di rispondere che “è tutto occupato”, che nei nostri giorni non c’è posto per Colui che è la Vita e può dare senso al nostro esistere. Il tempo di preparazione al Natale vuole proprio scardinare le nostre resistenze all’accoglienza di Gesù che ha scelto di incontrarci non con eclatanti effetti speciali, ma nella fragilità di un neonato che, appunto, possiamo facilmente rifiutare, come se non ne sentissimo il vagito.

Dobbiamo ammettere che sta a noi liberare spazio nel cuore e tempo delle nostre giornate perché questo bambino possa essere accolto. La capacità di accogliere non viene da una commozione superficiale, ma è il frutto di un discernimento anche difficile e di una preghiera perseverante. A questo ci chiama anche la liturgia che in tante occasioni, dopo il giorno di Natale, presenta eventi che rievocano il rifiuto a cui Gesù è andato incontro. Di fronte ai pericoli corsi dal Signore appena nato, che il Vangelo ci racconta, noi famiglie possiamo riunirci in preghiera e offrire un rifugio a Dio che ci chiede di aprirgli la porta di casa. Spesso non è neanche mancanza di volontà, eppure ci troviamo avvinti da un affanno costante che non ci predispone ad essere dei buoni ospiti per chi vuole venire da noi. Come se fossimo sempre di corsa, o ogni volta ci fosse qualcosa di più importante; come se quella sera fossimo troppo stanchi; o al contrario, pensando che tutto in casa debba essere in perfetto ordine, finiamo per rinunciare sempre all’invito dell’Altro.

Ed ecco che accogliere Gesù, come un cerchio d’onda, si dilata a non perdere le tante e preziose occasioni che ci vengono offerte per accogliere tutti coloro che come lui ancora oggi “non trovano posto”. Ciascuno secondo le sue possibilità, ma onestamente, con costanza, possiamo prenderci cura dei tanti che bussano alla nostra coscienza. Non dobbiamo pensare a gesti eclatanti: se ci sono famiglie che sanno entrare in relazione con un povero al punto da chiamarlo amico e ospitarlo a tavola, quello sarà senz’altro un pranzo “natalizio”, ovvero all’insegna di una gratuità di grande valore, ma spesso basta porre attenzione alla qualità delle relazioni anche le più abituali, fra noi, a casa, ogni giorno. Ci sono parole di attenzione, di affetto, di gratitudine che sembrano piccole ma hanno una luminosità intensa e possono rischiarare la giornata di chi le riceve, soprattutto se si tratta di un povero per strada, un escluso, o chiunque la cui speranza è a rischio di spegnersi. Vogliamo attingere vita e speranza da quel bambino e imitare i pastori.

All’epoca di Gesù, erano gli ultimi degli ultimi, mercenari un tutt’uno col gregge, la feccia della società, esclusi dalla relazione col sacro; eppure, Dio rovescia ogni logica e proprio a loro chiede di annunciare che la sua è una luce capace di illuminare tutte le notti degli uomini. È questo il Signore che attendiamo e che ci chiede, dopo averlo adorato nella mangiatoia, di riconoscerlo nel volto di ogni fratello che ci domanda amore. *

di Giovanni M. Capetta – Sir

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