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Vito Alfieri Fontana è diventato sminatore dopo aver prodotto mine antiuomo con la sua azienda, la Tecnovar: «Un giorno mio figlio mi disse: papà, ma allora sei un assassino?».

Vito è morto ogni volta che una mina antiuomo Tecnovar faceva clic. Vito è risorto ogni volta che le sue mani hanno impedito altri lutti. Perché Vito era l’uomo che fabbricava la più vigliacca delle armi. Oggi è l’eroe che ha vinto il suo passato, bonificando la dorsale minata dei Balcani.

«La morte odora di resurrezione» scriveva Eugenio Montale. Nella ex Jugoslavia avrebbero avuto più di un motivo per odiare l’ingegnere pugliese. Oggi ne hanno molti di più per dirgli falënderim. Il grazie dei superstiti kosovari. Le trappole di Vito Alfieri Fontana erano tra le migliori in commercio. La Tecnovar di Bari era un’eccellenza italiana. Erede designato del patron che aveva fiutato il nuovo business della guerra, aveva preso una laurea in ingegneria. Progettava tagliole esplosive facili da mimetizzare, resistenti alle intemperie, spietate. Un giro d’affari che si gonfia dopo la guerra del Kippur tra Israele, Egitto e Siria. Era il 1973, le grandi potenze facevano a gara per rimpinzare gli arsenali. «Noi le vendevamo ai governi, non eravamo trafficanti», ricorda l’ingegnere. Alla luce del sole. Gli ordigni spediti, ad esempio, all’Esercito egiziano finivano triangolati a una milizia balcanica o chissà dove. All’insaputa di chi esportava. Poi sono arrivate le «increspature». L’ingegnere le chiama così, alludendo a un rumore di fondo, come l’eco fastidioso di una risacca lontana. «Le increspature erano le voci di fuori, quelle esterne alla fabbrica. Quelle che non potevamo o non volevamo sentire».

Fino a che un giorno il postino si presenta all’ora delle consegne. «Qualcuno ha cominciato a mandarci scatole per calzature, ma contenevano una scarpa sola. Andò avanti per settimane. Una scatola, poi dieci, poi cento». Pacchi senza mittente e senza francobolli. «Il postino – ricorda Alfieri – li consegnava lo stesso, anche se non era stata pagata la spedizione». Segno che perfino i portalettere «avevano compreso quello che noi, da dentro, non riuscivamo a capire». Quello che accadde dopo ha a che fare con uno dei miracoli di don Tonino Bello, il vescovo oggi a un passo dagli altari. «Per noi era santo pure prima», dice Alfieri Fontana che ricorda l’astuta trappola preparatagli da don Tonino.

«Mi cercò per ‘trovare un punto di discussione insieme’, disse proprio così». Era il 1993, ma don Tonino morì poco prima di un incontro pubblico a cui Vito, dopo essere venuto in contatto con l’allora presidente di Pax Christi Italia, non volle sottrarsi. Fu il primo e unico imprenditore del settore a metterci la faccia. Sapeva già cosa aspettarsi. «La platea era infuriata con me». Non era impreparato. E non provò a cercare attenuanti. «Io risposi senza problemi, fino a quando un ragazzo, un volontario di Pax Christi, mi scosse quando chiese: “Ingegnere, lei sarà pure simpatico però la notte, quando va a dormire, cosa sogna? È possibile che lei sogna una bella guerra, è possibile che lei sogna una guerra per vendere tante mine?”».

Del resto, qualche tempo prima non era riuscito a giustificarsi neanche in casa. «Ma allora sei un assassino?», gli aveva domandato il figlio di dieci anni quando scoprì che quel papà buono e mite fabbricava strani balocchi che uccidevano e mutilavano. Il silenzio, violento come un gancio sotto al mento, Vito non l’ha più scordato. Non seppe cosa rispondere. «Ma no papà – provò a stemperare la sorellina inconsapevolmente affondando il colpo – lui voleva solo chiedere perché le armi le devi fabbricare proprio tu». Andò che Vito chiuse bottega. «La fabbrica non si poteva riconvertire. Forse avremmo potuto lavorare per mettere in sicurezza gli arsenali di Stato, ma non fu possibile, anche se è questo che potrebbero fare gli operai che ancora oggi fabbricano armi. Ma non dipende da noi, dipende dalla volontà dei governi».

Quando si assicurò che nessuno dei suoi dipendenti sarebbe rimasto senza un reddito, chiuse la fabbrica. Dalla sua Vito ha avuto la moglie, anche quando si decise ad afferrare la cornetta per candidarsi a un ruolo da sminatore nell’ex Jugoslavia. Lo presero subito. Intanto aveva collaborato alla stesura della Convenzione di Ottawa firmata nel 1997 per la proibizione delle mine antiuomo. 

«Che cosa si prova le prime volte che ti trovi a guidare, con l’organizzazione Intersos, lo sminamento di aree infestate da mine anti uomo? Stai male perché una parte di te la senti sotto terra. È una strana sensazione, cioè ti senti domandare dentro: “Guarda che hai combinato?”. I primi cinque minuti sono di paura, perché non sai se sarai capace, di andare contro te stesso. Poi, alla fine, la paura passa … Però, all’inizio, è imbarazzante. Mi sentivo veramente male ed ero molto severo con me stesso».  

E una volta sbarcato nei Balcani Vito ha potuto comprendere che le trovate di un ingegnere che progetta nuovi ordigni sono nulla al confronto della perfidia di chi le mine le piazza in modo da non lasciare scampo: «Abbiamo trovato ordigni collegati all’elettricità di case abbandonate, per colpire i profughi che sarebbero rientrati dopo la guerra. Altre erano state posizionate tra le macerie di chiese cannoneggiate. In un villaggio i serbi dissero che all’epoca degli scontri avevano riempito di mine il paese. E la gente, per paura, non tornava».

Quando Vito e la sua squadra erano andati a bonificare, scoprirono che in realtà non era stato interrato neanche un ordigno, «ma la paura aveva impedito ai cattolici di tornare nelle loro case». Quella volta tra le rovine e i campi non scovarono neanche una maledetta mina, «ma trovammo un rosario». A distanza di anni, dopo avere messo al sicuro uno dei posti più insicuri del mondo, Vito non ha dubbi: «Quel rosario era lì per dirci che mentre noi tutti ci eravamo spersi, Lui era rimasto lì».

(da Avvenire e Vatican News)

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