Una lucida analisi della situazione passata e presente di israeliani e palestinesi
La Fondazione Perugia-Assisi e la Coalizione Assisi pace giusta, il mese scorso, nel giorno della Dichiarazione universale dei Diritti Umani, hanno organizzato ad Assisi l’Incontro dei costruttori e delle costruttrici di pace per aprire uno spazio di riflessione attiva per non perdere la speranza, anzi per alimentarla, e ritrovare il senso profondo, autentico dell’impegno per la pace, per costruire una sempre più diffusa cultura della pace che alimenti una seria politica di pace.
Riportiamo qui l’intervento di Francesca Albanese, Relatrice speciale del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazionali Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967.
«La pace non è soltanto “cessate il fuoco”, la pace non è soltanto deporre le armi. La pace è riuscire ad immaginare un’umanità che cammina assieme senza differenze di razza, di genere, di etnia, di religione. E questa pace non c’è mai stata in Palestina, nella Palestina storica, in cui settantacinque anni fa fu creato lo Stato d’Israele. Già prima del 7 ottobre la realtà era pesantissima. La politica italiana, anche grazie a una sinistra che ha dimenticato che la giustizia è sempre causa propria, causa sua, ha derubricato completamente la questione palestinese. E quando dico palestinese non intendo escludere gli israeliani e le israeliane. Solo che tra il Mediterraneo e il fiume Giordano sono i palestinesi a non avere i diritti e quindi è ancora per loro che ci si batte. Ma non a detrimento degli israeliani e dei loro diritti. In trent’anni, la politica italiana – e per me la sinistra ha responsabilità molto più gravi – ha derubricato la questione palestinese. Ci siamo illusi che ci fosse veramente un processo di creazione di uno stato palestinese. E ancora oggi si parla di palestinesi e israeliani come se veramente avessero due stati. E allora incominciamo a correggere il linguaggio: non c’è uno stato palestinese, se non sulla carta. Quello che gli accordi di Oslo hanno consegnato ai palestinesi è autonomia municipale, al massimo. L’autorità palestinese esiste come una serie di sindaci che controllano un po’ di territorio, le cosiddette zone A (le città) e le zone B (zone periurbane). Tutta la Cisgiordania, anche le zone controllate dai palestinesi, sono sotto la legge militare israeliana. Da 56 anni il popolo palestinese, nel 22 % della Palestina che non diventò Israele nel 1948, vive sotto un ginepraio di ordini militari, scritti da soldati, posti in essere da soldati, rivisti in corti militari, da soldati. Ecco la giustizia che hanno i palestinesi. Bambini di 12 anni portati davanti ai giudici militari. È l’unico caso al mondo in cui i civili vengono sistematicamente giudicati da corti militari. Questo sarebbe sufficiente a una levata di scudi.
Settantacinque anni dal dono bellissimo della Dichiarazione universale dei diritti umani, ma anche settantacinque anni dalla creazione dello Stato d’Israele che coincide con la catastrofe, la fine, lo smembramento di una nazione.
Gli ebrei sono sempre stati perseguitati da noi europei. Questa è la lezione che ci dovremmo ricordare. Noi pensiamo all’olocausto come il momento definitivo di odio europeo contro gli ebrei, perché li abbiamo odiati tutti, perché non li abbiamo protetti. L’olocausto è stato il culmine di quell’odio. Dopo secoli di persecuzioni, dopo secoli di deumanizzazione, questa per me è la lezione più importante da trarre oggi dalla storia degli ebrei. Io lo capisco perché ogni ebreo e ogni ebrea veda nello Stato d’Israele un miracolo: perché anche dopo l’olocausto gli ebrei sono stati discriminati. Navi cariche di esuli, di sopravvissuti all’olocausto venivano scacciate dall’America, dall’Australia, dalla Gran Bretagna. Queste sono le cose che ci dobbiamo ricordare! È per questo che lo Stato d’Israele oggi dà forza e senso di dignità agli ebrei e alle ebree. Quindi, nessun giudizio.
A 75 anni da quel momento fatidico dobbiamo chiederci: che cosa possiamo essere oggi come comunità internazionale? Perché nel frattempo è successo che quella promessa di trenta anni fa (gli accordi di Oslo N.d.R.) è diventata neanche un vago ricordo. Uno stato si fa con un territorio, con il popolo, con la possibilità di governare. Tutto questo è stato eroso progressivamente dai successivi governi israeliani. Tutti hanno continuato ad autorizzare la creazione di colonie dopo colonie e oggi sono trecento. Cioè, trecento insediamenti illegali per soli ebrei nella Cisgiordania e Gerusalemme Est. Israele è riuscito a prendersi metro dopo metro tanta della terra che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese. E dov’era il nostro governo? Dov’era la sinistra? Dove eravamo noi?
Allora, non importa, non importano gli errori che sono stati fatti, però dagli errori si impara. Attraverso l’ingiustizia ho la possibilità di recuperare un percorso di giustizia in Palestina e in Israele, attraverso cui passa anche la nostra salvezza fisica. Attraverso la possibilità di riportare un percorso di pace, lì passa anche la nostra salvezza, anche come esseri umani. La pace si costruisce con la pace e non con quello che sta accadendo oggi.
Quello che Hamas ha fatto il 7 ottobre è criminale, è brutale. Non c’è nessuno che possa difendere, che possa chiamare “legittima resistenza” l’uccisione di civili, la presa degli ostaggi, la brutalizzazione di civili. Peraltro, la cosa tragica è che quella era anche la parte di Israele che da sempre si batteva per la pace, per la costruzione di un presente e di un futuro comuni e condivisi…
Ma quello che Israele ha fatto in risposta è pura vendetta e non si può giustificare come diritto alla autodifesa dal punto di vista del diritto internazionale. Quindi quando sentite qualcuno in televisione dire “diritto all’autodifesa”: NO, NO, NO! Il diritto all’autodifesa, nel diritto internazionale, è il diritto a fare la guerra che Israele NON ha nei confronti del popolo che tiene sotto occupazione belligerante da 56 anni e più. Sono altre le cose che Israele avrebbe dovuto fare, forse anche prima del 7 ottobre: smettere di opprimere i palestinesi, smettere di soffocarli. Perché in 18 mesi in cui sono stata relatrice speciale delle Nazioni Unite, ho continuato a denunciare il numero di morti che il 6 ottobre erano 60 israeliani e 460 palestinesi. E prima del 7 ottobre, Israele aveva già ammazzato 4000 persone a Gaza e 1000 bambini in 5 guerre violentissime.
La pace si costruisce con la pace. E non invocando un diritto all’autodifesa inesistente. Israele ha diritto a proteggersi, a proteggere il proprio territorio e i propri cittadini, ma in linea con il diritto internazionale.
Gaza non esiste più, diciamoci la verità. Gaza non esisterà più: lo status quo è andato, spazzato via. È una tabula rasa adesso: il 60 % delle infrastrutture civili è stata distrutta. Sono stati bombardati non solo ospedali – dicendo che c’erano basi militari dentro: ma quando è stata mai offerta prova che ci fossero basi militari dentro anche dopo che sono stati bombardati? – ma anche università, chiese (la chiesa più antica del mondo era a Gaza), moschee, interi quartieri residenziali. Non c’è più niente che si possa dire pronto a ri-ospitare una vita civile. Dietro questa operazione militare c’è, si vede, il disegno di spingere quanti più palestinesi possibile fuori dalla striscia di Gaza. Questo è un disegno antico: spingere i palestinesi di Gaza verso l’Egitto. Ricordiamo che il 75% delle persone a Gaza non sono nemmeno di Gaza: vengono da Israele, sono rifugiati. Di questa soluzione egiziana si parla da almeno 10 anni, e sta accadendo sotto i nostri occhi. Quindi è importante la conoscenza. La pace si costruisce con la conoscenza e con la comprensione della conoscenza. La pace si costruisce con un sistema di valori, che non può essere sostenuto se non sulla base del diritto e dei diritti di tutto e tutti: dell’uguaglianza alla libertà e alla dignità. Quella dignità che oggi è negata ai palestinesi.
La pace si costruisce con i costruttori e le costruttrici di pace. Non sarà la politica a buttare giù né il muro di omertà, né la deumanizzazione, né l’incapacità di costruire un sentiero diverso su cui riaccompagnare palestinesi e israeliani (questo era quello che la comunità internazionale doveva fare all’indomani del 7 ottobre). Questo è il momento chiave per mostrarsi in solidarietà tanto col popolo palestinese quanto col popolo israeliano e riuscire a essere equanimi nei confronti di entrambi. Riconoscere il dolore di entrambi, il trauma di entrambi e aiutarli a ritrovare la forza per camminare insieme. E per fare questo non possiamo stare zitti o fermi. Bisogna cambiare marcia, come diceva Pablo Neruda in una sua poesia. Bisogna riappropriarsi dello spazio pubblico per discutere, per esprimere il dissenso, per confrontarsi. Ma come è possibile che non si senta quello che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania? Perché in Cisgiordania non c’è la presenza militare di Hamas, eppure sono state ammazzate quasi 300 persone in due mesi, 70 delle quali bambini. 13.000 bambini, anche di 12 anni, erano già stati arrestati dal 2005 a oggi…
Oggi c’è questa cosa gravissima e pericolosissima di accusare di antisemitismo chiunque provi a divulgare conoscenze, fatti e norme. Attenti, l’antisemitismo esiste ancora! Ma oggi esiste anche il razzismo antipalestinese, e va denunciato anche quello. Se chiedere giustizia, pace, applicazione del diritto internazionale può essere soffocato in nome dell’antisemitismo, abbiamo tradito innanzitutto la lezione che tutti noi europei ed europee dovevamo apprendere dall’Olocausto. Perché il genocidio non è un atto, è un processo, e comincia con la deumanizzazione dell’altro. Così sono stati deumanizzati per secoli gli ebrei e così stiamo deumanizzando oggi i palestinesi.
Perciò, costruttori e costruttrici di pace: avanti!»