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Erika e “Die Rote Kapelle”

Oltre sessant’anni dopo quel 13 maggio 1943 Saskia ha scoperto la storia di sua madre e della “Rote Kapelle” e oggi partecipa a conferenze e incontri pubblici per raccontare chi era Erika von Brockdorff. Per non dimenticare.

Agosto 1941. In Germania nasce una rete di gruppi di resistenza collegati da contatti personali, che riunisce centinaia di oppositori del regime nazista. Sono studenti e persone che fanno mestieri diversi, persone accomunate dal comune desiderio di contrastare il regime. Stampano e distribuiscono volantini, manifesti e adesivi proibiti, nella speranza di incitare alla disobbedienza civile. Aiutano ebrei e membri della residenza a sfuggire all’arresto, documentano le atrocità commesse dai nazisti e trasmettono informazioni militari agli Alleati. Vengono chiamanti “Die Rote Kapelle”, l’orchestra rossa, perché operano come una vera e propria orchestra. Ma contrariamente alla leggenda, non sono diretti dai comunisti sovietici. Sono persone – ad oggi se ne conoscono circa 400 – che concorrono al progetto del gruppo, ciascuno facendo la sua parte. Finiscono inevitabilmente nel mirino dei nazisti. Vengono arrestati e portati davanti al “Reichskrieggericht”, il tribunale di guerra del Reich, che li condanna. Tra i condannati c’è anche la contessa Erika von Brockdorff. Nata nel 1911 a Kolberg, nella provincia di Pomerania, sulla costa del Mar Baltico, ha poco più di 30 anni quando, nel 1942 viene arrestata a Berlino, città dove si era trasferita nel 1929, dopo aver terminato la scuola di economia domestica a Magdeburgo, per lavorare come governante, modella e, successivamente come segretaria. Sposata dal 1937 con il conte Cay-Hugo von Brockdorff, che di mestiere faceva lo scultore, quello stesso anno dà alla luce una bambina, Saskia.

Erika viene condotta nella prigione femminile di Charlottenburg. Nel gennaio 1943 viene condannata a 10 anni di carcere e di lavori forzati. Una pena, questa, che non soddisfa però Hitler, che quello stesso giorno ordina di commutare la sentenza in condanna a morte. Erika attende 4 mesi in cella. La sera del 13 maggio 1943 viene condotta alla ghigliottina, nella prigione di Plötzensee a Berlino, insieme ad altre 13 persone.

Quando Erika viene giustiziata, Saskia è con i nonni materni. Quando il padre torna, nel 1946, come prigioniero di guerra, la bimba è felice di avere almeno un padre. Saputo solo nel 1945 dell’uccisione della madre, Saskia chiede spiegazioni al padre che però, impegnato a ricostruirsi una vita, è molto evasivo nelle sue risposte. Dopo un primo periodo in casa con la nuova matrigna Eva Lippold, Saskia viene mandata in un istituto per bambini e poi, nel 1949, in un collegio in Turingia. Ed è in quel momento che la ragazzina si sente abbandonata. 

Per molto tempo Saskia vive la figura di sua madre come un peso. Troppe le domande rimaste inevase. Nella Repubblica federale tedesca quelli della “Rote Kapelle” vengono considerati per decenni come un gruppo di traditori, mentre a est, nell’allora Ddr, venivano strumentalizzati dalla propaganda di Stato in funzione del mito della resistenza comunista. Nel 1969 Saskia si sposa con un peruviano e si trasferisce con il marito prima in Perù e poi in Germania Ovest. Nel 2001 torna con la sua famiglia a Berlino.

Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, iniziano le ricerche negli archivi russi e in altri archivi per ricostruire la storia della “Rote Kapelle”. Il materiale ritrovato viene presentato in alcune conferenze e raccolto in una mostra. È visitando questa mostra che Saskia, nei primi anni 2000, scopre diverse foto di lei con sua madre, foto che non aveva mai visto. Parlando con il direttore del memoriale, viene a sapere inoltre che nell’archivio c’era molto materiale su sua madre. 

È il 2006, sono trascorsi 63 anni dall’assassinio di Erika. Saskia ha 69 anni quando finalmente, sfogliando la documentazione raccolta per ricostruire la storia della “Rote Kapelle”, trova le risposte che non aveva mai ricevuto e che aspettava da tanto tempo. Solo allora scopre la vera storia di sua madre, la sua lotta contro il regime nazista, che le è costata la vita. Una vita che è tornata a rivivere oggi nel racconto di Saskia, che a 87 anni, tiene conferenze e partecipa a incontri pubblici e nelle scuole come testimone contemporanea dei giovani della “Rote Kapelle”. Il 29 gennaio, nell’ambito delle iniziative per la Giornata della Memoria, Saskia von Brockdorff partecipa con lo storico Tommaso Speccher ad un incontro pubblico a Bolzano, così come si può leggere sulla pagina Fb di Arci Bolzano-Bozen, che organizza l’appuntamento nella sala di rappresentanza del Comune.

Sfogliando quei faldoni, Saskia non scopre solo la storia di sua madre. Trova anche un foglietto di carta ingiallito, 9×9 cm, fitto su tutti e due i lati di parole, scritte a mano con una matita. Parole che Erika scrisse alla figlia, poco prima di essere condotta al patibolo.

“Mia cara Saskia, spero che tu possa leggere un giorno queste righe. Quel giorno io non ci sarò più da tempo. Ma con queste righe desidero dirti che nella mia cella ho pensato spesso a te, ho pensato quasi solo a te. Tu oggi hai solo 5 anni e vivi ancora con i miei genitori. Saranno loro a consolare il tuo dolore per non avere più una mamma. Bimba mia carissima ti auguro una vita piena solo e unicamente di bene. Spero che tu diventi una persona aperta e sincera. Tu sei stata l’unica, oltre a tuo padre, che ho amato sopra ogni cosa. Mi consola sapere che ti resta almeno il papà, anche se io oggi non so come finirà questa guerra spietata, se verrà arruolato ancora una volta come soldato e nel caso se avrà la fortuna di tornare. Ma il destino non può essere così duro con te, da rubarti anche il papà. Anche se non potrò essere più tra voi, io sarò con voi. Anche se tu oggi sei molto piccola, conserverai sicuramente un piccolo ricordo di me. Questo mi consolerà in questo mio ultimo cammino.

Sai di quella volta che ho detto ‘non mi ama nessuno’ e tu mi sei saltata in braccio, mi hai messo le tue piccole braccia attorno al collo e dicesti ‘mamma, io ti amo così tanto’? In questi 4 mesi non è mancato un solo giorno che ho vissuto, che non abbia ripensato a quel giorno, in clinica, quando ti ho presa in braccio per la prima volta. Mi si può accusare di molte cose, ma non quella di non essere stata una buona madre. Ho desiderato sempre il meglio, ricordatelo, quando vorranno denigrarmi ai tuoi occhi. Credo fermamente che verrà un tempo in cui si penserà diversamente su di me e su molti altri. Io avrei voluto viverlo questo tempo. Ma ora non sono triste che non sia così. In me regna una meravigliosa calma e chiarezza. Ti bacio e saluto mille volte. La tua mamma”.

di Irene Argentiero – Sir

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