Ringraziamo il Padre quando le nostre ferite ci fanno ancora male perché Dio non ha fatto sparire quelle di Gesù con un miracolo
Domenica in Albis: questa espressione significa che, la domenica successiva alla Pasqua, coloro che avevano ricevuto il Battesimo sette giorni prima, nella Veglia della notte santa partecipavano alla liturgia eucaristica indossando vesti bianche – da cui l’espressione latina “in albis” – segno di una vita rinnovata, come risorti con Cristo. Dall’anno giubilare 2000, per volontà di Papa Giovanni Paolo II, la festa celebrata è anche “la Domenica della Divina Misericordia”, una devozione preziosa che il santo Papa polacco ha donato a tutta la Chiesa, scrivendo la sua seconda enciclica Dives in Misericordia, nel 1980, interamente dedicata alla devozione appresa da suor Faustina Kowalska, nata in Polonia nel 1905, morta a soli 33 anni, a Cracovia, nel 1938 e proclamata santa, dallo stesso Wojtyła, il 30 aprile 2000.
Ma leggiamo le parole stesse che suor Faustina scriveva nel suo Diario nel 1931: “La sera, stando nella mia cella, vidi il Signore Gesù vestito di una veste bianca: una mano alzata per benedire, mentre l’altra toccava sul petto la veste, che ivi leggermente scostata lasciava uscire due grandi raggi, rosso l’uno e l’altro pallido. […] Gesù mi disse: Dipingi un’immagine secondo il modello che vedi, con sotto la scritta: ‘Gesù confido in Te!’ Desidero che quest’immagine venga venerata […] nel mondo intero. Prometto che l’anima che venererà quest’immagine non perirà. […] Voglio che l’immagine […] venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua: questa domenica deve essere la Festa della Misericordia”.
A pochi passi da San Pietro, la Chiesa di Santo Spirito in Sassia dal primo gennaio 1994 è il Santuario della Spiritualità della Divina Misericordia, e vede quotidianamente una moltitudine di pellegrini devoti, non certo solo italiani, che raggiungono questa bella chiesa romana per pregare attorno alla grande icona di Gesù.
Come possiamo anche noi, dovunque siamo, fare nostra questa esperienza di fede che sta quasi raggiungendo un secolo di vita? Possiamo partire – com’è sempre prezioso fare – dalla Parola di Dio. Nel Vangelo di Giovanni (Gv 20,19-31) leggiamo che: “la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati.”
Ecco da dove possiamo attingere, con concretezza, la misericordia che Gesù ci elargisce: egli è fisicamente la nostra pace! Lui viene e si mette in mezzo a noi, in equidistanza, proprio come entra a porte chiuse nel Cenacolo a ritessere i legami dei discepoli impauriti fra loro e dà vita alla Chiesa che sarà suggellata con lo Spirito Santo della Pentecoste. Lui è la nostra pace perché viene fra noi, risorto, e non ci giudica, non ci condanna, così come non condanna i suoi che lo hanno tradito e si sono nascosti, sperando che nessuno li arresti perché riconosciuti come suoi seguaci. L’amore di Cristo ci spinge a voltare pagina davvero, a vivere da risorti, a non rimuginare sui nostri mali fisici e spirituali e soprattutto a non nasconderci dietro l’alibi delle nostre ferite più o meno lontane nel tempo (chi non ne ha?), per non camminare in avanti, senza nuovo slancio, nonostante, anzi proprio attraverso le fatiche quotidiane che, certo, nel periodo di Pasqua, non svaniscono come la rugiada ai primi tepori della Primavera.
E che dire di Tommaso, che non era coi dodici quando viene Gesù la prima volta? Quando gli altri discepoli gli annunciano, entusiasti, che hanno visto il Signore Risorto, lui risponde: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. Spesso, anche complici i ritornelli della tradizione, abbiamo attribuito a questo discepolo solo la cifra dell’incredulità, ma, forse, non evidenziamo a sufficienza il fatto che egli è anche il fratello che non si rassegna che il corpo di Gesù non si trovi, l’uomo che gli aveva detto che avrebbe voluto morire con lui e che ora dimostra più coraggio di tutti perché è per le strade di Gerusalemme a cercarlo e non rintanato, in una stanza sbarrata, per vergogna e paura.
Quanto siamo increduli e quanto invece coraggiosi come Tommaso? Quando il Risorto torna fra i suoi, chiede a Tommaso, questa volta presente: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” e lui dona a Cristo e a tutti noi, la più essenziale e grande professione di fede: “Mio Signore e mio Dio!”, che molti di noi sussurrano ancora, durante la Messa, al momento dell’elevazione. Gesù risponde a Tommaso, con parole che arrivano oggi a tutti coloro che desiderano credere in Lui: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”
Ringraziamo il Padre quando le nostre ferite ci fanno ancora male perché Dio non ha fatto sparire quelle di Gesù con un miracolo che avrebbe potuto fare, così come il Figlio fece con tanti malati: è il Crocifisso Risorto e non una persona diversa! È lui con quel corpo, con quelle piaghe che, proprio come quelle dell’immagine dettata a suor Faustina, emanano forza vitale, emanano luce salvifica, bianca come l’acqua del Battesimo, rossa come il sangue che è valso la nostra redenzione. Misericordia, dunque, il Signore ci chiede perché questa è quella che ci dona, infinitamente, ogni giorno e allora possiamo essere figli, mariti, padri con uno sguardo nuovo, una tenerezza inedita, un desiderio sempre nuovo di essere per l’altro un dono, uno strumento di gioia, un fratello in Cristo.
di Giovanni M. Capetta – Sir