IV predica di Mons. Ranieri Cantalamessa
«Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà”. Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”. Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno (11, 23-25).»
L’insegnamento che Giovanni ha voluto trasmettere alla Chiesa con la sapiente composizione del capitolo 11 si può riassumere in tre punti: 1) Gesù risuscita l’amico Lazzaro (Gv 11,1-44); 2) La risurrezione di Lazzaro provoca la condanna a morte di Gesù (11,47-50); 3) La morte di Gesù procurerà la risurrezione di tutti quelli che credono in lui (11,51-53).
“Io sono la risurrezione!” Ci domandiamo: di quale risurrezione parla qui Gesù? Marta pensa alla risurrezione finale. Gesù non nega questa risurrezione “dell’ultimo giorno”, che altrove egli stesso promette (Gv 6,54), ma qui annuncia una cosa nuova: che la risurrezione comincia già fin da ora per chi crede in lui. Sant’Agostino commenta: “Il Signore ci ha indicato una risurrezione dei morti che precede la risurrezione finale. E non si tratta di una risurrezione come quella di Lazzaro o del figlio della vedova di Nain…che risuscitarono per morire un’altra volta”.
Come si vede, l’idea d’una risurrezione “spirituale” ed esistenziale, che ha luogo già in questa vita grazie alla fede, non era ignota nella tradizione cristiana. La novità è intervenuta quando si è voluto fare di essa l’unico significato della parola di Gesù. È nota la posizione di Bultmann, ora in gran parte superata, ma che imperversava quando studiavo teologia io. Secondo lui, la risurrezione di cui parla Gesù è una risurrezione esistenziale, un risveglio di coscienza, basato sulla fede. Siamo sulla linea del vago “appello alla decisione” e del “decidersi per Dio”, a cui egli riduce pressoché tutto il messaggio del Vangelo. Ma Giovanni dedica due interi capitoli del suo Vangelo alla risurrezione reale e corporale di Gesù, fornendo alcune delle informazioni più dettagliate su di essa. La risurrezione attuale non sostituisce quella finale del corpo, ma ne è la garanzia. Essa non vanifica e non rende inutile la risurrezione di Cristo dalla tomba, ma anzi si fonda proprio su di essa. Gesù può dire “Io sono la risurrezione”, perché egli è il Risorto!
Prima di Giovanni, è stato l’Apostolo Paolo ad affermare l’inscindibile legame tra la fede cristiana e la risurrezione reale di Cristo: «… ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.» (1Cor 15,14-17). Gesù stesso aveva indicato la sua risurrezione come il segno per eccellenza dell’autenticità della sua missione. Agli avversari che gli chiedevano un segno, egli dà una risposta che difficilmente si può attribuire ad altri che a Gesù stesso: «Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,39-40). I suoi oppositori sapevano bene che Giona non era rimasto per sempre nel ventre della balena, ma che dopo tre giorni era uscito da essa.
Se si parte dal presupposto che Dio non esiste, che il soprannaturale non esiste e che i miracoli non sono possibili, la conclusione a cui si giungerà è anch’essa data in partenza, perciò, alla lettera, un pre-giudizio. La risurrezione di Cristo costituisce il caso più esemplare di ciò. Nessun evento dell’antichità è suffragato da tante testimonianze di prima mano come questo. Alcune di esse risalenti a personalità del calibro intellettuale di Saulo di Tarso che aveva in precedenza fieramente combattuto tale credenza. Egli fornisce un elenco dettagliato di testimoni, alcuni dei quali ancora in vita, che avrebbero potuto, perciò, facilmente smentirlo (1Cor 15,6-9).
Si fa leva sulle discordanze circa i luoghi e i tempi delle apparizioni, senza rendersi conto che questa non programmata coincidenza sul fatto centrale è una riprova della verità storica di esso, più che una sua smentita. Nessuna “armonia prestabilita” in questo caso! Prima di essere messi per iscritto, gli eventi della vita di Gesù furono per decenni trasmessi per via orale – e variazioni e adattamenti marginali sono tipici di ogni racconto che una comunità viva e in espansione fa delle proprie origini, secondo i luoghi e le circostanze. È la conclusione cui è giunta la più recente e accreditata ricerca critica sui Vangeli.
Non ci sono, del resto, soltanto le apparizioni. San Giovanni Crisostomo ha, al riguardo, una pagina famosa, a cui tutta l’indagine critica moderna non ha tolto nulla della sua forza di persuasione. Diceva, dunque, in una omelia al popolo: “Come poteva venire in mente a dodici poveri uomini, e per di più ignoranti, che avevano passato la vita sui laghi e sui fiumi, di intraprendere una simile opera? Essi, che mai forse avevano messo piede in una città o in una piazza, come potevano pensare di affrontare tutta la terra? […] Non avrebbero, piuttosto, dovuto dire: E adesso? Non ha potuto salvare sé stesso, come potrà difendere noi? In vita non è riuscito a conquistare una sola nazione e noi, con il solo suo nome, dovremmo conquistare il mondo intero? Non sarebbe da folli mettersi in una simile impresa, o anche semplicemente pensarla? È evidente perciò che, se non lo avessero visto risuscitato e non avessero avuto una prova inconfutabile della sua potenza, non si sarebbero esposti mai a tanto rischio.”
A tutte queste prove il non-credente non può opporre se non la convinzione che la risurrezione dai morti è qualcosa di soprannaturale e il soprannaturale non esiste. E cosa è questo se non, appunto, un pre-giudizio e un “a priori”? Ha scritto sant’Agostino: “La fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo.” E aggiungeva: “Tutti credono che Gesù sia morto, anche i reprobi lo credono, ma non tutti credono che sia risorto e non si è cristiani se non si crede ciò”. Questo è il vero articolo con cui “la Chiesa sta o cade”. Negli Atti, gli Apostoli sono definiti semplicemente come “testimoni della sua risurrezione” (Atti, 1,22; 2,32).
“Io sono la risurrezione e la vita”. Commentando l’episodio dei morti risuscitati e apparsi in Gerusalemme al momento della morte di Cristo (Mt 27,52-53), san Leone Magno scrive: “Appaiano anche ora nella Città Santa [cioè, nella Chiesa] i segni della futura risurrezione e ciò che deve compiersi un giorno nei corpi, si compia ora nei cuori”. Ci sono, in altre parole, due tipi di risurrezione: c’è una risurrezione del corpo che avverrà nell’ultimo giorno e c’è una risurrezione del cuore che deve avvenire ogni giorno!
Il modo migliore per scoprire cosa si intende per risurrezione del cuore, è osservare cosa produsse spiritualmente la risurrezione fisica di Gesù nella vita degli Apostoli. Pietro inizia la sua Prima Lettera con queste alte parole: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi.» (1Pt 1,3-4) La risurrezione del cuore è dunque la rinascita della speranza. Stranamente, la parola “speranza” è assente nella predicazione di Gesù. I Vangeli riportano molti suoi detti sulla fede e sulla carità, ma nessuno sulla speranza, anche se tutta la sua predicazione proclama che esiste una risurrezione dai morti e una vita eterna. Al contrario, dopo Pasqua, vediamo esplodere letteralmente l’idea e il sentimento della speranza nella predicazione degli Apostoli. Dio stesso viene definito “il Dio della speranza” (Rm 15,13). La spiegazione dell’assenza di detti sulla speranza nel Vangelo è semplice: Cristo doveva prima morire e risorgere. Risorgendo, ha aperto la fonte della speranza; ha inaugurato l’oggetto stesso della speranza che è una vita con Dio oltre la morte.
Proviamo a vedere cosa potrebbe produrre una rinascita della speranza nella nostra vita spirituale. Gli Atti degli Apostoli raccontano ciò che accadde, un giorno, davanti alla porta del tempio di Gerusalemme chiamata “la Porta Bella”. Presso di essa giaceva uno storpio che chiedeva l’elemosina. Un giorno passarono di lì Pietro e Giovanni e sappiamo cosa accadde. Lo storpio, guarito, balzò in piedi e finalmente, dopo chissà quanti anni che giaceva lì abbandonato, anche lui varca quella porta ed entra nel tempio “saltando e lodando Dio” (At 3,1-9).
Qualcosa di simile potrebbe accadere anche a noi, grazie alla speranza. Spesso ci troviamo anche noi, spiritualmente, nella posizione dello storpio sulla soglia del tempio; inerti e tiepidi, come paralizzati di fronte alle difficoltà. Ma ecco che la speranza divina passa accanto a noi, portata dalla parola di Dio, e dice anche a noi, come Pietro disse allo storpio e come Gesù disse al paralitico: “Alzati e cammina!” (Mc 2,11). E noi ci alziamo ed entriamo finalmente nel cuore della Chiesa, pronti ad assumere, di nuovo e con gioia, i compiti e le responsabilità che ci sono assegnate dalla Provvidenza e dall’obbedienza. Questi sono i miracoli quotidiani della speranza. Essa è davvero una grande taumaturga, operatrice di miracoli; rimette in piedi migliaia di storpi e paralitici spirituali, migliaia di volte.
Ciò che è straordinario nella speranza è che la sua presenza cambia tutto, anche quando esteriormente non cambia nulla. Io ne ho un piccolo esempio nella mia vita. Io sono una persona che soffre molto più il freddo che il caldo. Ora in Italia a marzo, all’inizio della primavera, la temperatura, si sa, è più o meno la stessa che a fine ottobre e inizio novembre. Eppure, per anni notavo che il freddo di marzo mi faceva meno problema che non quello di novembre. Mi sono chiesto perché, visto che la temperatura è la stessa, e finalmente ho scoperto la ragione. Il freddo di novembre è un freddo senza speranza perché si va verso l’inverno; il freddo di marzo è un freddo con speranza perché si va verso l’estate!
La Lettera agli Ebrei paragona la speranza a “un’ancora sicura e salda della nostra vita”. Sicura e salda perché gettata non sulla terra ma in cielo, non nel tempo ma nell’eternità, “oltre il velo del santuario”, dice la stessa Lettera agli Ebrei (Eb 6,18-19). Questo simbolo della speranza è diventato classico. Ma abbiamo anche un’altra immagine della speranza – in un certo senso opposta alla precedente – e cioè la vela. Se l’ancora è ciò che dà sicurezza alla barca e la mantiene ferma tra le onde del mare, la vela è ciò che la fa muovere e avanzare nel mare.
In entrambi i modi opera la speranza, sia nei riguardi della barca che è la Chiesa che della barchetta della nostra vita. È davvero come una vela che raccoglie il vento e senza rumore lo trasforma in una forza motrice che trasporta la barca sulle acque. Come la vela, nelle mani di un buon marinaio, è in grado di sfruttare qualsiasi vento, da qualsiasi direzione spiri, favorevole o sfavorevole, per muovere la barca nella direzione desiderata, così fa la speranza.
Innanzitutto, la speranza ci viene in aiuto nel nostro personale cammino di santificazione. La speranza diventa, in chi la esercita, il principio stesso del progresso spirituale. Essa è sempre all’erta per scoprire nuove “occasioni di bene” realizzabili. Perciò non permette di adagiarsi nella tiepidezza e nell’accidia. La speranza è l’esatto contrario di ciò che a volte si pensa. Non è una disposizione interiore bella e poetica che fa sognare e costruire mondi immaginari. Al contrario, è molto concreta e pratica. Passa il suo tempo mettendoti sempre davanti compiti da svolgere.
Quando in una determinata situazione non c’è assolutamente nulla da fare – dice il filosofo Kierkegaard, in uno dei suoi discorsi edificanti – allora, sì, sarebbe la paralisi e la disperazione. Ma la speranza scopre sempre che c’è qualcosa che si può fare per migliorare la situazione: lavorare di più, essere più obbedienti, più umili, più mortificati. Quando sei tentato di dire a te stesso «Non c’è più niente da fare” (è ancora Kierkegaard che ci parla), la speranza si fa avanti e ti dice “Prega!” Tu rispondi “Ma ho pregato!” e lei “Prega ancora!”» E anche quando la situazione dovesse diventare talmente dura, che non sembra ci sia davvero più nulla da fare, la speranza ci indica comunque un compito: resistere fino alla fine e non perdere la pazienza. Questi traguardi additati dal filosofo credente sono esigenti, se non addirittura eroici. È chiaro che essi non sono possibili per i nostri sforzi, ma solo per la grazia di Dio che ci viene in aiuto e non ci lascia mai soli.
La speranza ha un rapporto privilegiato, nel Nuovo Testamento, con la pazienza. È il contrario dell’impazienza, della fretta, del “tutto e subito”. È l’antidoto allo scoraggiamento. Mantiene vivo il desiderio. È anche una grande pedagoga, nel senso che non indica tutto in una volta – tutto quello che c’è da fare o si può fare – ma ti mette davanti una possibilità alla volta. Dà solo “il pane quotidiano”. Distribuisce lo sforzo e permette così di realizzarlo.
La Scrittura mette continuamente in luce questa verità: che la tribolazione non toglie la speranza, ma anzi la aumenta: «La tribolazione – scrive l’Apostolo – produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 3-5).
La speranza ha bisogno della tribolazione come la fiamma ha bisogno del vento per rafforzarsi. Le ragioni terrene di speranza devono morire, una dopo l’altra, perché emerga la vera ragione incrollabile che è Dio. Succede come nel varo di una nave. È necessario che vengano rimosse le impalcature che sostenevano artificialmente la nave, quando era in costruzione, e che vengano portati via uno dopo l’altro tutti i vari puntelli, perché possa galleggiare e avanzare liberamente sull’acqua.
La tribolazione ci toglie ogni “presa” e ci porta a sperare solo in Dio. Conduce a quello stato di perfezione che consiste nel sperare quando sembra che non ci sia speranza (Rm 4,18), cioè nel continuare a sperare confidando nella parola una volta pronunciata da Dio, anche quando ogni ragione umana per sperare è scomparsa. Tale fu la speranza di Maria sotto la croce e per questo la pietà cristiana la invoca con il titolo di Mater Spei, madre della speranza.
La forza trasformatrice della speranza è meravigliosamente descritta in un bellissimo brano di Isaia:
«Anche i giovani faticano e si stancano,
gli adulti inciampano e cadono;
ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza,
mettono ali come aquile,
corrono senza affannarsi,
camminano senza stancarsi.» (Is 40,30–31)
L’oracolo è la risposta al lamento del popolo che dice: “La mia sorte è nascosta al Signore”. Dio non promette di togliere le ragioni della stanchezza e dello sfinimento, ma dona speranza. La situazione rimane di per sé quella che era, ma la speranza dà la forza per superarla.
Nel libro dell’Apocalisse leggiamo che «Quando il drago si vide gettato sulla terra, inseguì la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma alla donna furono date le due ali della grande aquila, affinché potesse volare verso il suo luogo nel deserto» (Ap 12,13-14). Se l’immagine delle ali dell’aquila si ispira, come sembra chiaramente, al testo di Isaia, ciò significa che a tutta la Chiesa sono state donate le grandi ali della speranza, affinché con esse possa, ogni volta, sfuggire agli attacchi del male e superare ogni difficoltà. Oggi come allora. Terminiamo ascoltando, come fatta ora su di noi, l’invocazione che l’Apostolo Paolo fa a favore dei fedeli di Roma al termine della sua Lettera ad essi indirizzata: «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo.» (Rm 15,13)