Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe il 4 luglio 1958. A 10 anni entra nel seminario di Aversa per studiare, ma la sua vocazione si consoliderà solo con gli anni: viene infine ordinato sacerdote il 14 marzo del 1982.
Nel 1989 viene nominato parroco della parrocchia di San Nicola a Casal di Principe ed è proprio in questa chiesa che viene ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994 mentre si preparava per celebrare la messa. Aveva 36 anni. Nel Natale del 1991, infatti, don Peppe aveva lanciato dagli altari un forte messaggio contro la “cultura” camorristica e criminale con il documento “Per amore del mio popolo”.
Da quel 19 marzo, molte cose sono cambiate: “è morto un prete ma è nato un popolo” (vescovo Riboldi); la tomba di don Giuseppe Diana è meta di migliaia di visitatori; le condanne della Magistratura ai capi della camorra casalese hanno messo in ginocchio l’organizzazione criminale; diversi beni sono stati confiscati ai boss e assegnati ad associazioni e cooperative sociali.
A trenta anni dall’uccisione di don Peppe Diana, martire, lo scorso 12 marzo 2024, la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sezione S. Tommaso di Napoli ha organizzato un Convegno per ricordarne l’impegno e l’eredità pastorale alla quale hanno partecipato in tanti, anche una classe del Liceo classico di Torre del Greco.
La lotta contro la mafia – ha affermato il decano prof. A. Foderaro – è una sfida che riguarda l’intera società e richiede il contributo di tutti quindi anche della Chiesa. Don Diana stesso era consapevole dei rischi che correva e delle minacce che riceveva a causa delle sue denunce ma ha deciso comunque di non tacere di fronte all’ingiustizia. La Chiesa non può più permettersi di restare in silenzio o di ignorare le sfide morali e sociali che affrontano la comunità in cui opera.
Dopo i saluti della Città di Napoli da parte del sindaco prof. Manfredi, per il quale il ricordo di don Peppe Diana deve rappresentare uno stimolo a fare meglio in un territorio che ha forte voglia di cambiamento, e dopo i saluti della Città di Casal di Principe da parte del sindaco dott. R. Natale, che ha ricordato la fatica perché il nome di don Peppe non venisse dimenticato e con lui un’idea di libertà per la quale era morto, don M. Cozzi ha introdotto e presentato Mons. A. Spinillo vescovo di Aversa che di recente ha scritto un documento intitolato “Trent’anni di voci sulle terre di don Peppe Diana” con il famoso appello “Per amore del mio popolo non tacerò”.
Il titolo di questo convegno – ha espresso Mons. Spinillo – individua già la presenza di don Diana come martire in un contesto. Un contesto nel quale il suo impegno costituisce però un’eredità. Giovani Paolo II, il giorno dopo l’uccisione di don Peppe, ebbe a dire all’Angelus: “Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra e morto (cfr. Gv 12,24), produca frutti di sincera conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace. Credo – ha continuato il vescovo Spinillo – che il fiorire di numerose e qualificate iniziative per il trentennale sia un segno inequivocabile del maturare di quei frutti germinati dal seme del suo sangue sparso su questa nostra terra. In quegli anni, nel nostro territorio, si sono contati oltre 800 morti ammazzati tra cui anche bambini che non sono riusciti a sfuggire alle dinamiche delle lotte tra i clan.
Tra i ragazzi uccisi ce ne sono stati alcuni che si erano già macchiati di diverse forme di reato e di crimine. Credo che anche questi ragazzi alla fine fossero semplicemente vittime di una logica e di una mentalità, di un modo di vivere per il quale la sopraffazione diventava il “valore”. L’affermare se stessi andando a sopraffare altri più deboli era il disvalore; e non è detto che ciò non sia ancora lì a gestire tanta parte della realtà nella quale noi viviamo. Papa Francesco in Evangelii gaudium ci invita poi a riconoscere e a credere con certezza di fede che chi si offre e si dona a Dio sicuramente sarà fecondo. Ecco, noi oggi raccogliamo questa eredità preziosa: è il frutto di una semina. E sappiamo che questa eredità, come ogni eredità che si raccoglie, chiede di essere nuovamente investita per portare altro frutto e quindi un nuovo frutto di vita.
Chi è il martire? Di solito lo individuiamo come un testimone, cioè, pensiamo a una persona che annunzia qualcosa che ha visto o che ha sentito, ma non necessariamente qualcosa di cui sia stato anche pienamente partecipe. Credo che il martire sia fondamentalmente colui che annuncia ciò in cui ha sentito maturare la sua propria identità. Il martire è colui che esprime, in quell’atto, sé stesso, chi è veramente lui. È la consapevolezza della propria identità e in questa consapevolezza si diventa capaci di porsi con libertà davanti ad ogni situazione e ad ogni altra presenza umana. Si è capaci di dialogare perfino con chi si presentasse come nemico. Ce lo ha detto Gesù: Vangelo di Matteo capitolo 5
Il convegno, della cui prima parte avevamo riferito su Kaire N° 19 dell’11 maggio 2024, è proseguito con l’intervento del vice presidente della Commissione antimafia dr. Federico Cafiero de Raho il quale ha raccontato com’era Gomorra in quegli anni: centinaia e centinaia di aziende edili gestite dalle camorre, traffico illecito di rifiuti tossici, uccidevano e assoldavano figli di quel territorio, avevano infiltrati dappertutto, estorsioni, politica corrotta, mancanza di controlli, cortei con sparatorie sui cittadini, omertà. Don Peppe è stato il santo che ha fatto risorgere Casal di Principe col suo sangue versato. Da sacerdote partecipava alle grandi manifestazioni anti-camorra insieme a don Ciotti, chiamava giovani a far parte degli scout, invitava alla denuncia (il cattolico aveva e ha il dovere di denunciare). Ecco il perché dunque, in quel momento, del documento “Per amore del mio popolo”. Dal 1994 viene avviata un’indagine colossale, vengono iscritti milletrecento persone per associazione mafiosa. Qualche giorno dopo la morte di don Peppe vi fu una grandissima manifestazione e l’atmosfera di legalità migliorò di giorno in giorno.
Anche il prof. Ulderico Parente ha offerto il suo contributo chiarendo che la figura di don Peppe va ripercorsa dal momento in cui era in vita. Si domanda: Cosa leggeva don Peppe? Cosa studiava? Cosa pregava? Come viveva? Chi erano stati i suoi docenti? Per capire gli input che ha ricevuto, i rapporti con la Curia e i fratelli.
Della pastoralita’di don Peppe poco si è detto. Egli è un sacerdote che è stato anche segretario del vescovo; quindi, chi è l’uomo che si presenta al martirio? È un pastore che difende il gregge in mezzo ai lupi. C’è bisogno di una stagione di studi, un lavoro sui suoi scritti, per evitare che don Peppe Diana diventi una figura mitica che toglierebbe forza alla sua azione pastorale. Il documento “Per amore del mio popolo” è un documento collegiale, sinodale, del clero della Forania di Casal di Principe. E don Peppe inoltre formava i giovani. Spetta al laicato essere animatore delle realtà temporali. È importante il laicato impegnato, come Rosario Livatino.
Raffaele Sardo, scrittore e saggista, ha raccontato invece il suo personale incontro con don Peppe, il quale – ha raccontato – non voleva essere un eroe. Era un sacerdote, un prete, che credeva nei valori del Vangelo. Il suo profilo vocazionale che porta la data del 19.3.1981 parla di famiglia, giovani e lavoro.
A mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano di Ionio, è stato domandato: Come si fa il prete in contesti così difficili? Certamente i seminaristi e i sacerdoti vanno preparati. Non c’è bisogno di eroi e non dobbiamo rinunciare alla denuncia, ha spiegato il vescovo Savino. La denuncia è speculare all’annuncio del Vangelo. Bisogna salire sui tetti e riannunciare la Parola di vita. Per essere preti, la prima pista è accettare e praticare il ministero ecclesiale del Vaticano II, in particolare la Gaudium et spes. Siate figli del Vaticano II, della Lettera a Diogneto, della Gaudium et spes.
La postura della Chiesa è quella del dialogo, non del giudizio ideologico. La Chiesa è sinfonia nella corresponsabilità dei ministeri. Se tu parroco dici: “Io sono il parroco e comando io” sappi che ti dimissiono. Quando non siamo capaci di dialogare, di tenere il confronto ci rifugiamo nel potere. Ma che potere!?! La Chiesa del Vaticano II è chiamata ad un’azione umanizzatrice che non ci consente di tacere davanti al sopruso o all’offesa della dignità umana. Come si fa a tacere sul diritto alla salute negato quotidianamente? O sull’autonomia differenziata che aumenterà ancora di più le disuguaglianze e l’impoverimento del nostro Sud? O sull’istruzione, sulla scuola?
Va recuperata una Teologia del popolo e un’idea di Chiesa.
La seconda pista è il superamento del modello clericale e sacrale, perché purtroppo possiamo essere noi stessi “brodo” che favorisce la mafia. Quale immagine, allora, di prete? Il PRETE PASTORE. Che non fugge davanti ai lupi né si rifugia nel ruolo o nel potere sacrale ma si schiera dalla parte del più debole. Un prete non può dire: “Me ne frego”.
Terza pista: la sinodalità tra le chiese del Meridione. I nostri silenzi o la nostra omertà sono organici al potere malavitoso e sono molto spesso strumentali e funzionali a chi si serve dei nostri territori, più che mettersi al servizio dei nostri territori. È l’ora di organizzarsi.
L’arcivescovo don Mimmo Battaglia, per concludere, è ripartito dicendo che quella Gomorra oggi forse non esiste più, sicuramente non esiste più con quei modi. Le mafie si sono trasformate, hanno cambiato i volti, talvolta anche i nomi. Ma continua a essere il mostro che semina morte come sempre ha fatto con fiumi di droga, con rifiuti di ogni tipo, con l’anima silenziosa e subdola della corruzione, con prestiti a usura. Come faccio a non ricordare – dice don Mimmo – Giovanbattista Cutolo, che sognava la scala della musica e che è stato ucciso per aver parcheggiato un motorino. Questo delitto, se non è direttamente riconducibile alla camorra è comunque figlia di quella (anti)cultura.
“Bisogna risalire alle cause del problema camorra per avere la possibilità di sanare la radice che è marcia” diceva don Peppe. Ciò che oggi mi fa paura non è solo la camorra ma è soprattutto quella che diventa pensiero, stile di vita e che si diffonde fino a diventare irriconoscibile e per questo accettata, tollerata, quasi come fosse un elemento folcloristico.
Don Peppe starebbe oggi dove è sempre stato, con le stesse parole, con la stessa passione, la stessa sana inquietudine che induce a metterti in discussione, che ti provoca e alimenta dentro – come se fosse un roveto ardente – quel desiderio inestinguibile di cambiare tutto e di non arrendersi mai. Dobbiamo organizzare la speranza. In questa sezione della Facoltà Teologica si è avviato un percorso che si pone l’obiettivo di costituire un Istituto di ricerca e di formazione permanente contro la mafia e la corruzione.
Cioè, uno strumento formativo permanente a disposizione soprattutto delle diocesi del sud Italia per aiutare, sostenere e accompagnare le Chiese locali nell’affrontare fenomeni così difficili e così complessi. Non per professionalizzare i preti e gli operatori pastorali ma per organizzare la speranza e tradurla in scelte e gesti concreti di atti di giustizia, di solidarietà, di cura della Casa comune. Dedicare questo istituto a don Peppe Diana significa affiancare alla denuncia la nostra testimonianza creando un progetto. Dopo aver ascoltato l’intero convegno, mi sento di dire una grande “grazie” a don Peppe Diana per il dono della sua vita e “grazie” per questo convegno molto significativo.
di Angela Di Scala