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Il desiderio di Gesù di rimanere sempre in comunione con noi, fino alla fine del mondo cosa comporta, come incide sui nostri comportamenti ogni giorno, in famiglia, al lavoro, in parrocchia, per la strada?

Che cosa ha a che fare con noi la festa del Corpus Domini, istituita da papa Urbano IV, nel lontano 1264? Provoca ancora le nostre coscienze il miracolo di Bolsena, per cui un sacerdote boemo ottenne conferma della reale presenza del corpo di Cristo nell’Eucarestia quando, allo spezzare dell’ostia consacrata, uscì sangue così da macchiare il corporale (conservato nel Duomo di Orvieto)? A dispetto dei secoli e delle dolorose divisioni che, proprio anche sulla stessa transustanziazione, hanno diviso i cristiani, ai tempi della Riforma protestante, la Chiesa cattolica non ha mai avuto tentennamenti su questa verità di fede e cioè che, a ogni Messa celebrata, noi non rievochiamo solo la memoria dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli, ma realmente facciamo Pasqua con lui e lui diviene volontariamente pane e vino che noi mangiamo e beviamo per la nostra salvezza.

Si tratta di un miracolo a cui quotidianamente possiamo partecipare che non ha nulla a che fare con la magia, quanto piuttosto con la creatività infinita di Dio che ha pensato, per essere unito a noi, qualcosa di inimmaginabile dalla mente umana. Illudersi di commentare questo mistero è assolutamente pretenzioso, ma può, invece, avere significato provare a riflettere su quali possano essere le conseguenze esistenziali del nostro nutrirci del Corpo di Cristo.

Il desiderio di Gesù di rimanere sempre in comunione con noi, fino alla fine del mondo cosa comporta, come incide sui nostri comportamenti ogni giorno, in famiglia, al lavoro, in parrocchia, per la strada? Spesso siamo sbilanciati su noi stessi: consumiamo tante, forse troppe energie, a interrogarci se siamo degni, preparati, all’altezza di ricevere l’Eucarestia e, se non siamo “a posto” (almeno secondo i parametri), andiamo a riconciliarci, o non ci accostiamo al sacramento.

Se comunicarci al corpo del Signore senza alcun esame di coscienza è di certo una forma di immaturità; anche astenersi per tempi lunghi è una pigrizia su cui vigilare: è come se andassimo ogni settimana a pranzo da un Amico e poi, però, non mangiassimo nulla… Ma, al di là del fatto che dovremmo riconoscere che non potremo mai essere abbastanza all’altezza dell’immenso dono che è fare Eucarestia, oltre a scrutarci dentro, si tratta di sintonizzarsi sulla possibilità di trasformarci anche noi in pane e vino per gli altri, con un’espressione felice: a vivere una vita eucaristica, cioè essere “presi, benedetti, spezzati e dati”, proprio come il pane sull’altare. Essere presi significa che siamo stati scelti da Gesù e messi in tante situazioni della nostra esistenza in cui ci siamo ritrovati senza averle scelte.

Anche in questi contesti difficili come una grave malattia, nostra o di una persona cara; un caso di disoccupazione, o un conflitto che sembra insanabile, il Signore ci mostra che possiamo lasciarci prendere con la docilità del pane. Sapersi benedetti, significa, su questa lunghezza d’onda, credere profondamente che nonostante tutto, anche quando magari un litigio con il proprio coniuge, o un’incomprensione di un figlio ci interroga e ci lacera dentro, anche lì non dobbiamo farci vincere dalla tentazione di temere di essere nel posto sbagliato, o tanto meno di aver fallito il nostro obbiettivo, o essere venuti meno alla nostra vocazione.

Gesù Risorto benedicendo il pane ci comunica la sua vita e ci testimonia che la nostra è sempre comunque benedetta. Dio Padre, nel Figlio Gesù, dice bene di ognuno di noi, in ogni istante, in ogni condizione, e a dispetto di ogni nostra caduta e peccato. Se qualcosa in noi è maledetto, non viene da Dio. Infine, per essere eucaristici possiamo essere spezzati. So, grazie alla comunione con Gesù, che mi posso donare, posso consegnarmi, non per uno sterile sacrificio, ma per donare vita a qualcun altro.

Quando a tavola si spezza il pane è perché arrivi e nutra tutta i commensali. Noi possiamo trasmettere la vita di Dio, attraverso la nostra e allora varrà sempre la pena. Se lascio che il Signore agisca attraverso di me, quella che si genera è vita nuova, bella, vita risorta. Questa è l’opera meravigliosa di continua ri-creazione del mondo a cui siamo chiamati come coprotagonisti. Quando sull’altare il sacerdote celebrante dice “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, in persona Christi sta consacrando il pane e il vino per tutti noi e, sciolta l’assemblea, per il mondo possiamo essere seminatori di vita, di gioia, di speranza per tutti.

di Giovanni M. Capetta -Sir

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