Oltre 200 sacerdoti “non italiani” che prestano servizio nelle diocesi laziali hanno partecipato al raduno organizzato alla Pontificia Università Urbaniana. La sfida di sentirsi missionari.
«Voi siete il tesoro nascosto che agisce dentro le nostre comunità, siete una linfa per le parrocchie e le diocesi italiane. Freschezza dell’annuncio da portare per osmosi, in Occidente». E ancora: «sentitevi missionari! Siete portatori di una esperienza di vita, di fede e di Chiesa che non vale meno della nostra». Così monsignor Emilio Nappa, presidente delle Pontificie Opere Missionarie, e don Giuseppe Pizzoli, direttore della Fondazione Missio, hanno introdotto il secondo raduno degli oltre duecento sacerdoti non italiani nel Lazio, svoltosi presso la Pontificia Università Urbaniana a Roma. «Più corretto sarebbe chiamarvi sacerdoti missionari fidei donum, perché dire “non italiani” porta fuori strada», ha precisato don Federico Tartaglia, direttore del Centro missionario diocesano di Porto-Santa Rufina, tra gli organizzatori dell’evento. Don Tartaglia è stato missionario fidei donum per nove anni nel Malawi, in Africa. «Questi fratelli non sono i tappabuchi delle nostre mancate vocazioni – puntualizza il vescovo di Albano Vincenzo Viva, presidente della Commissione missionaria regionale del Lazio, promotore dell’incontro –. Voi siete qui per aiutare le parrocchie italiane ad aprirsi alla mondialità». Ed è certo che Haiti, Repubblica Democratica del Congo, Angola, Colombia, India, Myanmar, Pakistan, Ghana – tra i Paesi di provenienza dei presbiteri – hanno parecchio da dire e da raccontare.
«Abbiamo lasciato tanto in patria, e qui abbiamo trovato ancora di più, ora abbiamo una doppia famiglia: quella di sangue e quella presbiteriale», ammette don Fernando Lopez, dalla Colombia ad Albano in servizio pastorale. «La sfida sta tutta nella vicendevole apertura, nonostante le difficoltà. Voi non siete qui in Italia solo per celebrare una Messa o un funerale, ma per testimoniare», ha ricordato Viva. Davanti ad una realtà che «fatica ad essere impegnata nella missio ad gentes» e si perde nel relativismo, questi sacerdoti sono un dono. «Se una comunità è viva, annuncia il Vangelo, non c’è dubbio», ha detto il vescovo di Asti Marco Prastaro, a sua volta fidei donum per undici anni nel Kenya, sempre nel continente africano. «Noi sacerdoti partiamo dalla nostra terra d’origine in un’ottica che non è quella migratoria. Noi siamo mossi dal progetto apostolico dell’annuncio», ha aggiunto. E poi: «parliamo di un rapporto di reciprocità, in cui ogni parte dà qualcosa di sé ed in cui ogni parte riceve qualcosa. Un servizio fatto a nome di una Chiesa che ci manda e alla quale dobbiamo rendere quanto l’esperienza di fidei donum ci ha insegnato». Tra le sfide poste ai nuovi evangelizzatori c’è sicuramente quella di «imparare la lingua, inserirsi in una Chiesa che ha già un suo cammino, promuovere il laicato, accettare la povertà come scelta», ha fatto notare ancora Prastaro.
I duecento sacerdoti si sono poi suddivisi in dodici gruppi per discutere di come riproporre alcuni elementi della Chiesa e della cultura d’origine nelle parrocchie in Italia. L’iniziativa, promossa dalla Commissione missionaria regionale, in collaborazione con Migrantes Lazio e la Commissione regionale per il clero e la vita consacrata, può essere una matrice da replicare in altre regioni.
«Quest’anno sono stati invitati anche i parroci che ospitano i sacerdoti non italiani – spiega Annarita Turi, dell’Ufficio nazionale per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese –. Se il Lazio è la regione cardine, perché sede delle maggiori università pontificie, l’auspicio è quello di allargare geograficamente l’esperimento». Ma sarebbe anche auspicabile «un incontro per le suore straniere in Italia, delle quali sappiamo molto poco». Infine, una nota critica, che l’incontro di ieri ha rilanciato: siamo ancora lontani da una reale valorizzazione di questi sacerdoti. Tenuto conto che l’esperienza pastorale ha una durata limitata nel tempo, come prevedono le convenzioni stipulate tra diocesi che accolgono e che inviano.
di Ilaria De Bonis – Avvenire