Durante l’Angelus di domenica 3 luglio il Papa spiega il significato di andare, da parte dei discepoli, a due a due per il mondo, così come Gesù aveva inviati i suoi: «Nel Vangelo della Liturgia di questa domenica leggiamo che «il Signore designò altri settantadue [discepoli] e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10,1).
I discepoli sono stati inviati a due a due, non singolarmente. Andare in missione a due a due, da un punto di vista pratico, sembrerebbe comportare più svantaggi che vantaggi. C’è il rischio che i due non vadano d’accordo, che abbiano un passo diverso, che uno si stanchi o si ammali lungo la via, costringendo anche l’altro a fermarsi. Quando invece si è da soli, sembra che il cammino diventi più spedito e senza intoppi. Gesù però non la pensa così: davanti a sé non invia dei solitari, ma discepoli che vanno a due a due.
Ma facciamoci una domanda: qual è la ragione di questa scelta del Signore? Compito dei discepoli è di andare avanti nei villaggi e preparare la gente ad accogliere Gesù; e le istruzioni che Egli dà loro sono non tanto su che cosa devono dire, quanto su come devono essere: cioè non sul “libretto” che devono dire, no; sulla testimonianza di vita, la testimonianza da dare più che sulle parole da dire. Infatti li definisce operai: sono cioè chiamati a operare, a evangelizzare mediante il loro comportamento. E la prima azione concreta con cui i discepoli svolgono la loro missione è proprio quella di andare a due a due.
I discepoli non sono dei “battitori liberi”, dei predicatori che non sanno cedere la parola a un altro. È anzitutto la vita stessa dei discepoli ad annunciare il Vangelo: il loro saper stare insieme, il rispettarsi reciprocamente, il non voler dimostrare di essere più capace dell’altro, il concorde riferimento all’unico Maestro. Si possono elaborare piani pastorali perfetti, mettere in atto progetti ben fatti, organizzarsi nei minimi dettagli; si possono convocare folle e avere tanti mezzi; ma se non c’è disponibilità alla fraternità, la missione evangelica non avanza».
Il Poverello d’Assisi non poteva essere da meno rispetto al Signore Gesù, sulle sue orme anche lui invitava i suoi frati ad andare ad evangelizzare per il mondo a due a due: “Nello stesso tempo entrò nell’Ordine una nuova e ottima recluta, così il loro numero fu portato a otto. Allora il beato Francesco li radunò tutti insieme, e dopo aver parlato loro a lungo del Regno di Dio, del disprezzo del mondo, del rinnegamento della propria volontà, del dominio che si deve esercitare sul proprio corpo, li divise in quattro gruppi, di due ciascuno e disse loro: « Andate, carissimi, a due a due per le varie parti del mondo e annunciate agli uomini la pace e la penitenza in remissione dei peccati; e siate pazienti nelle persecuzioni, sicuri che il Signore adempirà il suo disegno e manterrà le sue promesse. Rispondete con umiltà a chi vi interroga, benedite chi vi perseguita, ringraziate chi vi ingiuria e vi calunnia, perché in cambio ci viene preparato il regno eterno».
Ed essi, ricevendo con gaudio e letizia grande il precetto della santa obbedienza, si prostravano davanti al beato padre, che abbracciandoli con tenerezza e devozione diceva ad ognuno: «Riponi la tua fiducia nel Signore ed Egli avrà cura di te» (Sal 54,28). Era la frase che ripeteva ogni volta che mandava qualche frate ad eseguire l’obbedienza. . Allora frate Bernardo con frate Egidio partì per Compostella, al santuario di San Giacomo, in Galizia; san Francesco con un altro compagno si scelse la valle di Rieti; gli altri quattro, a due a due, si incamminarono verso le altre due direzioni. Ma passato breve tempo, san Francesco, desiderando di rivederli tutti, pregò il Signore, il quale raccoglie i figli dispersi d’Israele (Is 11,12), che si degnasse nella sua misericordia di riunirli presto. E tosto, secondo il suo desiderio e senza che alcuno li chiamasse, si ritrovarono insieme e resero grazie a Dio.
Prendendo il cibo insieme manifestano calorosamente la loro gioia nel rivedere il pio pastore e la loro meraviglia per aver avuto il medesimo pensiero.” (FF 366).