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Culto dell’immagine, ignoranza e violenza

Tre elementi che vanno a braccetto. Non ci credete? Ma è sotto gli occhi di tutti e ve lo dimostrerò, pur cercando di cogliere il lato positivo di queste nuove modalità di comunicazione attraverso l’immagine. Chi può negare che dal 2020, se non fosse stato per il lavoro a distanza, la DAD, le videochiamate, le comunicazioni via social, ci saremmo sentiti in trappola? Il risvolto negativo è che in trappola ci siamo rimasti, nella gabbia dorata del mondo virtuale, dal quale in tanti non riescono più ad uscire.

E le prime vittime sono stati i bambini che hanno avuto, dopo il ritorno in classe, problemi di comunicazione e di relazione con i coetanei e con gli adulti, una sorta di timore, perché non più protetti da uno schermo, una sorta di difesa, di corazza. Non ho nulla contro l’immagine, anzi va detto che essa ha sempre caratterizzato la vita dell’uomo, ha seguito i passi della sua evoluzione, sin dai graffiti delle caverne.

Ma esiste un solo periodo storico che può essere assimilabile a quello attuale: l’età barocca, in cui la ricerca del bello era spasmodica e finalizzata a suscitare forti emozioni e prevaleva sui contenuti; le opere pittoriche e scultoree tendevano ad essere gigantesche e grandiose, le poesie dovevano destare nel lettore meraviglia. Bisognava esserne affascinati, incantati. E oggi? Oggi siamo andati ben oltre, un oltre che mi spaventa. Quella barocca, che potrà anche non piacere, era comunque una cultura, quella di oggi io la definirei una sub cultura dove l’immagine è tutto, oltre la quale c’è il nulla, o se si vuole, un ego smisurato. L’imperativo categorico è: si deve apparire belli, anzi perfetti! Come? Ci sono dei criteri molto precisi da seguire: i ragazzi devono essere appariscenti, palestrati, doverosamente tatuati. E le ragazze? Idem. Tecnicamente perfette, vietato essere di taglia abbondante e se la natura non le ha dotate delle “misure giuste”, c’è sempre la chirurgia estetica e il botulino a risolvere il problema. O qualche dieta miracolosa. Che poi qualcuna ci rimetta le penne è ininfluente, un incidente di percorso.

Leggiamo la notizia su un quotidiano, ascoltiamo per qualche giorno i vari telegiornali e i servizi televisivi , mentre tutti si chiedono come sia potuta accadere una cosa del genere. E andiamo avanti e non cambia niente, salvo un manipolo di coraggiosi che si da’ da fare sul campo con progetti e attività ad hoc. Ma questo ovviamente i più non lo sanno e non sono attratti dalle notizie positive, né tanto meno dall’agire in prima persona. Purtroppo è diventata un’ossessione quella di “mostrarsi”, e si finisce così con l’essere narcisisti d’immagine, e si espone il proprio sé come certificazione di esistenza in vita, ci si esibisce sui social come da un palcoscenico quasi a vantarsi del proprio raggiunto “successo”, e chi non lo fa è fuori, escluso, emarginato. Poi parliamo di inclusione…. E si aspettano come giusto compenso i like, il numero crescente dei follower o degli amici. E questo è tutto.

Poi ci meravigliamo se all’esame di maturità alcuni studenti hanno parlato di un certo poeta Ugo Fosforo, dell’estetista D’Annunzio e di Liliana Segre perseguitata perché “era una donna di colore”! Certo se si dedicassero allo studio come si dedicano alla cura dei loro profili social, avremmo dei talenti. E tutti “devono” avere un profilo social, anche i ragazzini delle elementari e far parte almeno di un gruppo e si disperano se non possono farlo per la loro tenera età. Salvo la complicità di genitori irresponsabili che permettono loro di dichiarare il falso. La lezione è: quando mi conviene posso raccontare frottole, sono abbastanza grande per farlo e lo sarò per qualunque altro capriccio. In realtà consegnare un telefonino a un bambino e permettergli di tutto, equivale a mettergli in mano una rivoltella. Le vittime? Prima di tutto loro stessi, defraudati della loro infanzia, della loro innocenza, della loro crescita emotiva, delle relazioni reali. E poi i più fragili, quelli che vengono derisi e tormentati ogni giorno per i motivi più stupidi, per il loro modo di essere, di parlare, di muoversi, perché non hanno abiti e accessori firmati, per cui si indirizza loro sui social un “fai schifo” “sei fuori”, “ma dove ti presenti”, e “perle” di questo genere.

Li educhiamo all’odio, altro che inclusione! Le parole uccidono: ragazzini dai 9 ai 17 anni si sono suicidati per questo: chi ha bevuto la candeggina per un fai schifo, chi si è impiccato, chi è saltato da un ponte, chi si è buttato sotto un treno perché aveva l’anima a pezzi e voleva che anche il corpo lo fosse. E l’elenco è lunghissimo e devastante. E mentre parliamo e ci rammarichiamo e sospiriamo, non cambia niente. Ma ci rendiamo conto che questi atteggiamenti da super eroi del male (i bulli), partono da una mancanza assoluta di regole? Nessuno ha più il coraggio di negare qualcosa al figlio e il ragionamento è sempre lo stesso: “Voglio che mio figlio abbia tutto quello che io non ho potuto avere…” e dovrebbero continuare “ Anche la licenza di uccidere” Siamo così abituati a questo scempio da non provare più nulla? Vittime e complici della nuova “arma letale”, della quale nessuno riesce più a fare a meno.

Nel mondo reale si vive allo stesso modo, alla ricerca del consenso e dell’ammirazione per “bravate”, così le definiscono. Però le persone muoiono. Vi ricordate dei fratelli Bianchi gli uccisori di Willy Monteiro Duarte, a Colleferro? Lo hanno massacrato di botte, ucciso, spappolandogli tutti gli organi interni. Perché tanta ferocia? E al processo, dopo la sentenza che li ha condannati all’ergastolo, hanno pure protestato! Ci vuole coraggio a farlo dopo aver ucciso un ragazzo. Ma la madre li difende pure i suoi preziosi gioielli, promettendo ricorso. Indubbiamente sono stati ben allevati, con le mollichelle, direbbero a Napoli, mollichelle di odio puro e smisurato egoismo. Anche loro ovviamente avevano il culto dell’immagine, e lo vediamo dalle foto che circolano: ben piazzati, muscoli in evidenza quasi a trasmettere questa immagine di forza, più che virile, bestiale, anche e soprattutto attraverso “lezioni” esemplari, al minimo sgarro o per motivi del tutto pretestuosi. Altro dolore, altro sconcerto e tutto scaturisce sempre dall’ossessione dell’immagine, del sé, della mancanza assoluta di rispetto per l’altro.

Purtroppo il chiodo fisso dell’apparire, e la voglia di mostrarsi non risparmia nessuno, neppure gli adulti, persino chi in età matura rischia di diventare patetico e tristemente ridicolo. Ogni tendenza, portata all’eccesso e senza il necessario buon senso può portare a distorsioni della realtà, a confondere i comportamenti con i bisogni reali e si finisce così in un vortice dal quale è difficile uscire senza una rinascita valoriale. Mi rivolgo ai ragazzi più responsabili, quelli che ancora credono nella cultura e nelle costruzione di un futuro migliore, a misura d’uomo, a quelli che credono ai rapporti umani autentici, reali, fondati sulla stima e il rispetto reciproci. Proteggeteli i più piccoli, intervenite quando qualcuno è bullizzato, non state a guardare e basta.

Mettetevi nei panni di chi viene deriso e oltraggiato. Come vi sentireste? Ricordate sempre che gli altri siamo noi. Siate equilibrati, date il giusto valore alle cose, riscopriamo insieme il fascino dell’educazione e della saggezza, per esempio. E a tale proposito, vale la pena riflettere su queste belle parole di Papa Francesco: “La cultura dell’apparenza, che ci induce a vivere per le cose che passano, è un grande inganno. Perché è come una fiammata: una volta finita, resta solo la cenere”.

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