108ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato
(Am 6,1a.4-7; Sal 145; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31)
Costruire il futuro con migranti e rifugiati
La Parola che ci viene donata nella liturgia di questa domenica offre, come sempre, delle suggestioni quanto mai preziose per celebrare al meglio la 108ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato e per coglierne il senso più profondo. Innanzitutto, nella Prima Lettura veniamo come scossi e messi con le spalle al muro da un oracolo veemente, infuocato, attinto dal Libro di Amos. Questo profeta opera in Israele, nell’ottavo secolo a.C., in un frangente in cui il regno del nord appare in continua espansione e le ricchezze abbondano. Amos però denuncia il fatto che questo lusso è alimentato a discapito dei poveri, degli ultimi e dei forestieri. Tutto questo è inaccettabile e appare come un abominio agli occhi di Dio.
A peggiorare ulteriormente le cose contribuisce una pratica cultuale sempre più pomposa, ostentata, ma senza cuore e senza anima. Se ci pensiamo bene, non ci riconosciamo un po’ anche noi nel quadro appena delineato? Pure noi infatti, come denuncia Amos, finiamo per lasciarci assuefare dal clima generale di dissolutezza e di indifferenza, per cui pensiamo solamente a divertirci e a goderci la vita, senza darci pensiero di tutti coloro che di questa stessa vita finiscono per diventare gli scarti… E quante volte anche le nostre celebrazioni, seppure esteticamente ben curate, rischiano di ridursi a un evento esteriore, formale e di trovarci spenti, insensibili alla voce del Signore e a quella dei fratelli? Sembrano risuonare a proposito allora le parole che l’apostolo Paolo rivolge a Timoteo e che aprono la Seconda Lettura: «Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità». Una sequela autentica del Signore non può che dispiegarsi lungo i sentieri privilegiati dell’accoglienza e della giustizia sociale. Amos non ha potuto chiudere gli occhi e le labbra e per questo è stato allontanato ed espulso dal paese.
Allo stesso modo, anche noi non possiamo tacere di fronte alle chiusure e alle situazioni di indigenza e oppressione che sfregiano il tempo e il contesto in cui viviamo, costi quel che costi. Sì, perché come ci ricorda il Salmo 145 con cui siamo invitati a pregare, «il Signore rimane fedele per sempre e rende giustizia agli oppressi»: questo è certo, e costituisce il punto fermo al quale è ancorata la nostra speranza. Allo stesso tempo, però, è altrettanto sicuro che la ricerca sfrenata ed esclusiva del proprio benessere e della propria sicurezza non porta lontano, a meno che non si apra al riconoscimento in coloro che si fanno vicini e che bussano alla nostra porta di una presenza amica e di una risorsa provvidenziale, e non di un limite o tanto meno di una minaccia. A suggello di tutto questo la pagina del Vangelo di Luca ci propone una parabola di Gesù molto nota, dalla specifica valenza sociale. Protagonisti sono un ricco e il povero Lazzaro. Il quadro che viene delineato è impietoso: il ricco nel corso della sua vita è solito godersi «lauti banchetti», senza nemmeno accorgersi che fuori dalla porta c’è un povero che brama di sfamarsi delle briciole avanzate.
Secondo la legge del contrappasso, quindi, risulta logico che, alla loro morte, il povero venga consolato e «portato dagli angeli accanto ad Abramo», mentre il ricco si ritrovi sprofondato «negli inferi fra i tormenti». L’intento dell’evangelista, e tanto meno di Gesù, non è però quello di metterci in guardia in vista della giusta retribuzione che attenderebbe alla fine ciascuno di noi. Dio, infatti, non rinnega e non caccia nessuno, in quanto ci vuole tutti accanto a sé, «come virgulti d’ulivo intorno alla sua mensa» (Sal 128,3). Piuttosto, il Signore cerca di aprire i nostri occhi, così che possiamo riconoscere i fratelli bisognosi e oppressi che vivono accanto a noi. Risultano emblematiche in tal senso le parole di Abramo: «Tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi».
Questo abisso non è creato da Dio, ma da noi stessi, ogni volta che chiudiamo le porte e costruiamo muri di fronte ai fratelli che cercano presso di noi sollievo e rifugio. Ecco allora la lezione mirabile della parabola, che costituisce anche il messaggio di fondo della Parola rivolta a noi in questa domenica: nel momento in cui non dovessimo riconoscere in questi fratelli un sostegno e una benedizione, finiremmo inevitabilmente per ritrovarci presto come il ricco, sepolti, privi di speranza e senza più nemmeno un nome.
Fonte: don Luca Pedroli – Biblista (Pontificio Istituto Biblico, Roma)
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“Il Signore rende giustizia agli oppressi”
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(Am 6,1a.4-7; Sal 145; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31)
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La Parola che ci viene donata nella liturgia di questa domenica offre, come sempre, delle suggestioni quanto mai preziose per celebrare al meglio la 108ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato e per coglierne il senso più profondo. Innanzitutto, nella Prima Lettura veniamo come scossi e messi con le spalle al muro da un oracolo veemente, infuocato, attinto dal Libro di Amos. Questo profeta opera in Israele, nell’ottavo secolo a.C., in un frangente in cui il regno del nord appare in continua espansione e le ricchezze abbondano. Amos però denuncia il fatto che questo lusso è alimentato a discapito dei poveri, degli ultimi e dei forestieri. Tutto questo è inaccettabile e appare come un abominio agli occhi di Dio.
A peggiorare ulteriormente le cose contribuisce una pratica cultuale sempre più pomposa, ostentata, ma senza cuore e senza anima. Se ci pensiamo bene, non ci riconosciamo un po’ anche noi nel quadro appena delineato? Pure noi infatti, come denuncia Amos, finiamo per lasciarci assuefare dal clima generale di dissolutezza e di indifferenza, per cui pensiamo solamente a divertirci e a goderci la vita, senza darci pensiero di tutti coloro che di questa stessa vita finiscono per diventare gli scarti… E quante volte anche le nostre celebrazioni, seppure esteticamente ben curate, rischiano di ridursi a un evento esteriore, formale e di trovarci spenti, insensibili alla voce del Signore e a quella dei fratelli? Sembrano risuonare a proposito allora le parole che l’apostolo Paolo rivolge a Timoteo e che aprono la Seconda Lettura: «Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità». Una sequela autentica del Signore non può che dispiegarsi lungo i sentieri privilegiati dell’accoglienza e della giustizia sociale. Amos non ha potuto chiudere gli occhi e le labbra e per questo è stato allontanato ed espulso dal paese.
Allo stesso modo, anche noi non possiamo tacere di fronte alle chiusure e alle situazioni di indigenza e oppressione che sfregiano il tempo e il contesto in cui viviamo, costi quel che costi. Sì, perché come ci ricorda il Salmo 145 con cui siamo invitati a pregare, «il Signore rimane fedele per sempre e rende giustizia agli oppressi»: questo è certo, e costituisce il punto fermo al quale è ancorata la nostra speranza. Allo stesso tempo, però, è altrettanto sicuro che la ricerca sfrenata ed esclusiva del proprio benessere e della propria sicurezza non porta lontano, a meno che non si apra al riconoscimento in coloro che si fanno vicini e che bussano alla nostra porta di una presenza amica e di una risorsa provvidenziale, e non di un limite o tanto meno di una minaccia. A suggello di tutto questo la pagina del Vangelo di Luca ci propone una parabola di Gesù molto nota, dalla specifica valenza sociale. Protagonisti sono un ricco e il povero Lazzaro. Il quadro che viene delineato è impietoso: il ricco nel corso della sua vita è solito godersi «lauti banchetti», senza nemmeno accorgersi che fuori dalla porta c’è un povero che brama di sfamarsi delle briciole avanzate.
Secondo la legge del contrappasso, quindi, risulta logico che, alla loro morte, il povero venga consolato e «portato dagli angeli accanto ad Abramo», mentre il ricco si ritrovi sprofondato «negli inferi fra i tormenti». L’intento dell’evangelista, e tanto meno di Gesù, non è però quello di metterci in guardia in vista della giusta retribuzione che attenderebbe alla fine ciascuno di noi. Dio, infatti, non rinnega e non caccia nessuno, in quanto ci vuole tutti accanto a sé, «come virgulti d’ulivo intorno alla sua mensa» (Sal 128,3). Piuttosto, il Signore cerca di aprire i nostri occhi, così che possiamo riconoscere i fratelli bisognosi e oppressi che vivono accanto a noi. Risultano emblematiche in tal senso le parole di Abramo: «Tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi».
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Fonte: don Luca Pedroli – Biblista (Pontificio Istituto Biblico, Roma)
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