Commento al Vangelo Lc 20,27-38
Qual è l’immagine di Dio che abbiamo? Questa domanda ci deve accompagnare nella riflessione sul Vangelo di questa domenica. A volte ho l’impressione che su Dio proiettiamo qualcosa di nostro che ci appartiene. Vedete spesso scambiamo Dio per una delle divinità greche o pagane che sono la proiezione di noi stessi, delle nostre paure; spesso appoggiamo l’idea di Dio con immagini con cui siamo cresciuti tipo uno che sta sulle nuvole, un gestore della vita, uno sempre pronto a guardare se qualcosa non va.
Un’idea di Dio così fa nascere una conseguenza inequivocabile: noi ne siamo soggetti, dobbiamo tenercelo buono; poi non vi dico quelli che poggiano il timore di Dio e l’immagine di Dio sulla paura dell’inferno o sulla paura del demonio, sui miei sensi di colpa e sull’errore. A volte devo dirlo, diventiamo promotori di queste idee e guai a contraddirle perché si diventa traditori della fede e della tradizione. Ecco i nostri amici sadducei.
Nel tempo in cui viveva Gesù non ci troviamo in un ambiente facile, ma siamo in un minestrone di correnti, di modi di pensare, di ideologie, di letture e riletture della fede dove non è facile raccapezzarsi. Ecco tutto questo lo mettiamo sotto il nome di “Giudaismo”. Dunque non meravigliamoci se per i sadducei troviamo l’espressione “non credevano nella resurrezione”. I sadducei sono uno dei tanti gruppi che esistevano in questo minestrone detto giudaismo. Essi prendono il loro nome da Sadoch, il primo leggendario sommo sacerdote del primo tempio del re Salomone; erano discendenti della famiglia levitica di Sadock e si occupavano del tempio e da loro veniva scelto il sommo sacerdote fino a quando c’era stata una riforma, che essi consideravano iniqua, con Giuda maccabeo. Essi erano visti da tutti come i difensori della legge di Mosè e quindi per loro contava soltanto quello che era stato elaborato nel Pentateuco.
Dunque, tutta la riflessione successiva ai primi 5 libri della Bibbia, quella che noi chiamiamo la legge orale, quella cui si rifacevano invece con molta forza i Farisei, la consideravano una stupidaggine. Pensate come questi considerano Gesù, un carpentiere della Galilea, lo considerano un profeta improvvisato, una persona ignorante, una persona pericolosa. Ecco che attaccano bottone sul tema della Risurrezione. Premettiamo che il tema della vita oltre la morte ha avuto un’evoluzione nel corso della Bibbia. I sadducei erano assolutamente convinti che quando uno era morto finiva nello scheoll cioè un luogo in cui le anime vagavano senza pace; successivamente nasce una corrente che pensa ad una sopravvivenza o ad un continuo dell’anima in un’altra dimensione (noi usiamo la parola anima ma loro non la usavano).
Di questa concezione i più convinti assertori erano i farisei e Gesù stesso. Gesù crede nella Resurrezione, lui primo sarà il risorto. Ecco adesso capiamo la provocazione dei sadducei nei confronti di Gesù: il caso della vedova ammazza-mariti. Nel Pentateuco, per preservare quella che era la discendenza che era l’unica ricchezza di un essere umano cioè la propria eredità genetica, se uno moriva senza avere figli sua moglie era tenuta ad avere un figlio da suo fratello (una cosa che mi fa inorridire), non soltanto, ma il figlio che sarebbe stato concepito prendeva il nome del marito defunto.
I sadducei tendono questa trappola assurda: la vedova ammazza-mariti resta vedova 7 volte e per 7 volte giace con tutti i fratelli e alla fine non ha nessun figlio; quindi, nella risurrezione (a cui loro non credono) di chi sarà moglie? Gesù scuote la testa e dice che siete in grande errore. Gesù stabilisce un criterio importantissimo cioè che la sopravvivenza dell’anima non è nella stessa intensità e nello stesso ordine delle cose con cui viviamo la nostra vita, perché altrimenti avrebbero avuto ragione a fare questo ragionamento assurdo. Gesù, dunque, da un criterio di interpretazione a partire dalla scrittura. Gesù conosce la parola e la medita e la fa vibrare nella sua vita, cosa che a volte io fatico a fare. Gesù cita il Pentateuco al quale i sadducei erano molto legati. In particolare, Esodo capitolo due, quando Mosè che ormai si è ritirato a vita privata è sposato con Zipporah, figlia di Iesse e mentre sta pascolando va e vede il roveto ardente. Mentre sta facendo l’esperienza di Dio, il Signore si presenta come il Dio dei Padri: “Io sono il Dio Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Gesù argomenta, dicendo che Dio parla al presente, che Abramo è ancora vivo, Isacco è ancora vivo, Giacobbe è ancora vivo perché Dio è il Dio dei vivi. Invece di mandarli a quel paese Gesù argomenta in maniera straordinaria.
Ma esiste un dettaglio ancora più bello che sottolinea padre Ermes Ronchi a proposito di quella espressione “Io sono il Dio di” (il Dio di Abramo e Dio di Isacco e Dio di Giacobbe). Il nostro Dio è il Dio di qualcuno non è un Dio ipotetico, un Dio generico che se ne sta chissà dove; non è il Dio dei sadducei che alla fine non fa che confermare quello che loro vogliono, che alla fine non fa che ribadire quello che loro pensano, e tante volte ho l’impressione che Dio sia un po’ così dal nostro punto di vista, cioè uno che alla fine conferma quello che vogliamo. Invece Gesù ci parla di Dio non come di una teoria ma come di qualcuno che possiamo incontrare, “il Dio di”. Il Dio di Gesù è Dio non è un Dio del sentito dire, non è un Dio del “secondo me” ma è un Dio che posso incontrare concretamente.
Quando dice il Dio di Abramo vuol dire che Abramo ha una storia da raccontare con Dio e così per Isacco e per Giacobbe. Possiamo continuare con Mosè stesso e poi Davide e poi discepoli e poi il prete che mi ha parlato di Gesù Cristo per la prima volta; non è un Dio generico ma il Dio di Gesù Cristo, è colui che c’è stato raccontato, annunciato, e Gesù nella pienezza dei tempi ci svela qual è il vero volto di Dio! Dunque, è un incontro personale non impersonale, è un amico che ci svela la vita bella del vangelo, la vita nuova, che ci indica la strada per crescere in pienezza.
Questo io voglio portarmi nel cuore oggi, un Dio dei vivi non dei morti, la fede è qualcosa che ci ravviva non che ci mortifica, che ci vivifica, e se non è così c’è qualcosa che non funziona. Allora noi crediamo non in un dio imbalsamato, un dio dei morti, un dio custode di un blocco di cemento armato, ma noi crediamo in un Dio che si relaziona, che interviene, che è dinamismo, che è gioia, che è freschezza, che è vita, che è tutto ciò che ci porta la vita, tutto ci porta verso Dio, tutto ciò che dona vita, tutto è già espressione divina. Allora vogliamo continuare oggi senza giocare e barricarsi dietro i grandi ragionamenti, quisquiglie e pettegolezzi da lavandaia, ma davvero vogliamo imparare da Gesù a meditare la parola come lui la sa meditare. Il nostro Dio è il Dio di Gesù, è il Dio di Cristian, il Dio di Giuseppe, il Dio di Pietro, è il Dio di ciascuno di noi, è qualcuno che non vede l’ora di farsi conoscere. Buona domenica!
Correlati
“Il Dio di”
Commento al Vangelo Lc 20,27-38
Qual è l’immagine di Dio che abbiamo? Questa domanda ci deve accompagnare nella riflessione sul Vangelo di questa domenica. A volte ho l’impressione che su Dio proiettiamo qualcosa di nostro che ci appartiene. Vedete spesso scambiamo Dio per una delle divinità greche o pagane che sono la proiezione di noi stessi, delle nostre paure; spesso appoggiamo l’idea di Dio con immagini con cui siamo cresciuti tipo uno che sta sulle nuvole, un gestore della vita, uno sempre pronto a guardare se qualcosa non va.
Un’idea di Dio così fa nascere una conseguenza inequivocabile: noi ne siamo soggetti, dobbiamo tenercelo buono; poi non vi dico quelli che poggiano il timore di Dio e l’immagine di Dio sulla paura dell’inferno o sulla paura del demonio, sui miei sensi di colpa e sull’errore. A volte devo dirlo, diventiamo promotori di queste idee e guai a contraddirle perché si diventa traditori della fede e della tradizione. Ecco i nostri amici sadducei.
Nel tempo in cui viveva Gesù non ci troviamo in un ambiente facile, ma siamo in un minestrone di correnti, di modi di pensare, di ideologie, di letture e riletture della fede dove non è facile raccapezzarsi. Ecco tutto questo lo mettiamo sotto il nome di “Giudaismo”. Dunque non meravigliamoci se per i sadducei troviamo l’espressione “non credevano nella resurrezione”. I sadducei sono uno dei tanti gruppi che esistevano in questo minestrone detto giudaismo. Essi prendono il loro nome da Sadoch, il primo leggendario sommo sacerdote del primo tempio del re Salomone; erano discendenti della famiglia levitica di Sadock e si occupavano del tempio e da loro veniva scelto il sommo sacerdote fino a quando c’era stata una riforma, che essi consideravano iniqua, con Giuda maccabeo. Essi erano visti da tutti come i difensori della legge di Mosè e quindi per loro contava soltanto quello che era stato elaborato nel Pentateuco.
Dunque, tutta la riflessione successiva ai primi 5 libri della Bibbia, quella che noi chiamiamo la legge orale, quella cui si rifacevano invece con molta forza i Farisei, la consideravano una stupidaggine. Pensate come questi considerano Gesù, un carpentiere della Galilea, lo considerano un profeta improvvisato, una persona ignorante, una persona pericolosa. Ecco che attaccano bottone sul tema della Risurrezione. Premettiamo che il tema della vita oltre la morte ha avuto un’evoluzione nel corso della Bibbia. I sadducei erano assolutamente convinti che quando uno era morto finiva nello scheoll cioè un luogo in cui le anime vagavano senza pace; successivamente nasce una corrente che pensa ad una sopravvivenza o ad un continuo dell’anima in un’altra dimensione (noi usiamo la parola anima ma loro non la usavano).
Di questa concezione i più convinti assertori erano i farisei e Gesù stesso. Gesù crede nella Resurrezione, lui primo sarà il risorto. Ecco adesso capiamo la provocazione dei sadducei nei confronti di Gesù: il caso della vedova ammazza-mariti. Nel Pentateuco, per preservare quella che era la discendenza che era l’unica ricchezza di un essere umano cioè la propria eredità genetica, se uno moriva senza avere figli sua moglie era tenuta ad avere un figlio da suo fratello (una cosa che mi fa inorridire), non soltanto, ma il figlio che sarebbe stato concepito prendeva il nome del marito defunto.
I sadducei tendono questa trappola assurda: la vedova ammazza-mariti resta vedova 7 volte e per 7 volte giace con tutti i fratelli e alla fine non ha nessun figlio; quindi, nella risurrezione (a cui loro non credono) di chi sarà moglie? Gesù scuote la testa e dice che siete in grande errore. Gesù stabilisce un criterio importantissimo cioè che la sopravvivenza dell’anima non è nella stessa intensità e nello stesso ordine delle cose con cui viviamo la nostra vita, perché altrimenti avrebbero avuto ragione a fare questo ragionamento assurdo. Gesù, dunque, da un criterio di interpretazione a partire dalla scrittura. Gesù conosce la parola e la medita e la fa vibrare nella sua vita, cosa che a volte io fatico a fare. Gesù cita il Pentateuco al quale i sadducei erano molto legati. In particolare, Esodo capitolo due, quando Mosè che ormai si è ritirato a vita privata è sposato con Zipporah, figlia di Iesse e mentre sta pascolando va e vede il roveto ardente. Mentre sta facendo l’esperienza di Dio, il Signore si presenta come il Dio dei Padri: “Io sono il Dio Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Gesù argomenta, dicendo che Dio parla al presente, che Abramo è ancora vivo, Isacco è ancora vivo, Giacobbe è ancora vivo perché Dio è il Dio dei vivi. Invece di mandarli a quel paese Gesù argomenta in maniera straordinaria.
Ma esiste un dettaglio ancora più bello che sottolinea padre Ermes Ronchi a proposito di quella espressione “Io sono il Dio di” (il Dio di Abramo e Dio di Isacco e Dio di Giacobbe). Il nostro Dio è il Dio di qualcuno non è un Dio ipotetico, un Dio generico che se ne sta chissà dove; non è il Dio dei sadducei che alla fine non fa che confermare quello che loro vogliono, che alla fine non fa che ribadire quello che loro pensano, e tante volte ho l’impressione che Dio sia un po’ così dal nostro punto di vista, cioè uno che alla fine conferma quello che vogliamo. Invece Gesù ci parla di Dio non come di una teoria ma come di qualcuno che possiamo incontrare, “il Dio di”. Il Dio di Gesù è Dio non è un Dio del sentito dire, non è un Dio del “secondo me” ma è un Dio che posso incontrare concretamente.
Quando dice il Dio di Abramo vuol dire che Abramo ha una storia da raccontare con Dio e così per Isacco e per Giacobbe. Possiamo continuare con Mosè stesso e poi Davide e poi discepoli e poi il prete che mi ha parlato di Gesù Cristo per la prima volta; non è un Dio generico ma il Dio di Gesù Cristo, è colui che c’è stato raccontato, annunciato, e Gesù nella pienezza dei tempi ci svela qual è il vero volto di Dio! Dunque, è un incontro personale non impersonale, è un amico che ci svela la vita bella del vangelo, la vita nuova, che ci indica la strada per crescere in pienezza.
Questo io voglio portarmi nel cuore oggi, un Dio dei vivi non dei morti, la fede è qualcosa che ci ravviva non che ci mortifica, che ci vivifica, e se non è così c’è qualcosa che non funziona. Allora noi crediamo non in un dio imbalsamato, un dio dei morti, un dio custode di un blocco di cemento armato, ma noi crediamo in un Dio che si relaziona, che interviene, che è dinamismo, che è gioia, che è freschezza, che è vita, che è tutto ciò che ci porta la vita, tutto ci porta verso Dio, tutto ciò che dona vita, tutto è già espressione divina. Allora vogliamo continuare oggi senza giocare e barricarsi dietro i grandi ragionamenti, quisquiglie e pettegolezzi da lavandaia, ma davvero vogliamo imparare da Gesù a meditare la parola come lui la sa meditare. Il nostro Dio è il Dio di Gesù, è il Dio di Cristian, il Dio di Giuseppe, il Dio di Pietro, è il Dio di ciascuno di noi, è qualcuno che non vede l’ora di farsi conoscere. Buona domenica!
Correlati
Condividi su:
Don Cristian Solmonese
Seguici su:
Articoli recenti
N° 47 – Anno 11 – Condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità – 23 novembre 2024
Condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità
I 1700 anni del Credo di Nicea
Lettera del Santo Padre Francesco per il ricordo nelle chiese particolari dei propri santi, beati, venerabili e servi di Dio
Categories
Articoli correlati
N° 47 – Anno 11 – Condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità – 23 novembre 2024
CLICCA E SCARICA IL KAIRE IN ALTA RISOLUZIONE
Condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità
Roma, 15-17 novembre 2024 “Partiti dalle nostre Chiese locali ci siamo riuniti qui a Roma, la Chiesa di Pietro e Paolo, per inserirci nell’ininterrotta corrente spirituale che scaturì dal mandato
I 1700 anni del Credo di Nicea
“Occasione straordinaria per essere una luce di speranza nell’oscurità di un mondo diviso e ferito” Il 2025 è l’anno in cui ricorrerà il 1700° anniversario del Primo Concilio Ecumenico di
Lettera del Santo Padre Francesco per il ricordo nelle chiese particolari dei propri santi, beati, venerabili e servi di Dio
Con l’Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate ho voluto riproporre ai fedeli discepoli di Cristo del mondo contemporaneo la chiamata universale alla santità. Essa è al centro dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, il quale