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L’intraducibilità della parola

L’irripetibilità di una realtà che tuttavia ancora fa sperare

Per noi diversamente giovani, alcuni cantanti appaiono, ad essere buonisti, provocatori fino all’estremo e, spesso, il messaggio che arriva è di un gusto a dir poco discutibile.

Per il mondo degli adolescenti, anche quelli fuori età convenzionale, si tratta invece di artisti che esprimono il loro talento in maniera diretta e senza troppi veli, il disagio di vivere la quotidianità, le incomprensioni, e tutto quel che accade nella tempesta dell’adolescenza.

Arrivano dritto al punto, i cantanti di oggi, vestiti in maniera che appare insolente, con andatura e performance che non sempre trovano l’approvazione o il consenso dei più. E pur tuttavia entrano nei nostri smartphone senza timore di apparire spregiudicati. E vengono seguiti, condivisi, twittati e ripostati.

Immaginiamo ora che circa 70 anni fa, nell’immediato dopoguerra, un prete di periferia, uno di quelli che è meglio mettere in condizioni di non nuocere, o almeno non troppo, venga “promosso e trasferito” (Promoveatur ut amoveatur), e nominato parrocoin una frazione sperduta nella valle del Mugello, lontana dal Comune capoluogo, Vicchio, oggi circa 7 km di strada carrabile. Immaginiamo anche che all’epoca, a Barbiana, non arrivava l’acqua, la corrente, e forse, fino a quel momento non arrivava nemmeno Dio. Immaginiamo ancora che alla fine di una giornata tra campi, sacrestia, attività varie e letture, il prete scriva in una lettera: “Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare… star sui coglioni a tutti…” e che la stessa identica frase venga registrata ai microfoni di un incontro tenutosi in curia, davanti a studenti, professori, presbiteri con tanto di crocifisso su una parete e foto di un vescovo che saluta il Papa su quella opposta.

L’impatto è forte, vibrante, fa raddrizzare le schiene, sgranare gli occhi, addirittura quelli di chi invece dovrebbe essere stato abituato dallo stesso don Milani ad un linguaggio così colorito. Edoardo Martinelli si volta verso l’oratore compiaciuto e a tratti meravigliato che un prete possa ripetere un’espressione che il suo maestro, prete anche lui, ha consegnato alla cronaca ed alle critiche circa 60 anni fa.

La barriera dell’indifferenza è superata, l’attenzione dei ragazzi è catturata e supera un flebile, malcelato imbarazzo che non deve essere lo stesso dell’epoca di don Lorenzo, ma in ogni caso ha una sua intensità. Detta da un sacerdote, nel nostro caso due, a distanza di più di mezzo secolo, poi, il naso si arriccia un po’ di più, o no? Ma la frase continua con:

“…come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici, noiosi, insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce”.

Ecco che una parola spezzata, si frantuma addosso ai muri di indifferenza, alla sterilità delle regole, sugli sguardi supponenti della classe borghese e sulle consolidate abitudini di chi ha tutto e pensa che i poveri non esistono e se esistono sono molto lontani da noi, che solo chi è ricco debba studiare, andare avanti ed occupare un posto di rilievo nella vita. Tutto il resto, che viva pure ai margini della storia. Ecco che la verità, nuda e cruda e spietata come solo la verità può esserlo, si ripropone in tutta la sua forza e la sua poca clemenza e rimbomba nelle sale larghe, lunghe ed alte di un episcopio una mattina apparentemente serena di un sabato di maggio.

Dubito che don Lorenzo Milani abbia pensato all’effetto che avrebbe sortito esternando un’espressione del genere, come del resto non credo avesse grade importanza per lui e per il suo quasi inesistente ego, sapere cosa ne pensassero gli altri di tutto quello che faceva, diceva, taceva o approfondiva. Lui non si poneva il problema di mandarle a dire, don Lorenzo le scriveva proprio, nero su bianco, con o senza luce, anche in assenza di aula, banco, scrittoio.

Un essere pensante, un evangelizzatore a tutto campo, e per questo un ribelle, come tutti i ribelli che hanno fede sin dentro il liquor midollare e che pagò il suo non conformarsi con un pegno che gli apparirà poi, un dono, una grazia ricevuta, l’esilio di Barbiana, ridente frazione del comune di Vicchio. A nord di Firenze, oggi amiamo dire dopo aver navigato su google maps, perché siamo sinceri, non sapevamo nemmeno in quale area si trovasse e se per caso non fosse una di quelle battute che oggi amano i giovani, del tipo “il Molise non esiste” e parimenti “Barbiana non esiste”. All’epoca dei fatti era solo un cumulo di case diroccate sperdute nel nulla cosmico della valle del Mugello.

Oggi, nel centenario della nascita, don Lorenzo Milani è assurto ai giusti onori della memoria, dopo che Papa Francesco, in visita alla tomba, in quel di Barbiana, lo ha “riabilitato”, ma all’epoca in cui visse e morì, era considerata una di quelle mosche bianche che è persino meglio che non si veda. Giusto per non rendere sfacciatamente evidente che tutte le altre mosche sono nere.

Edoardo Martinelli, suo allievo e coautore del libro “Lettera a una professoressa”, è diretto e chiaro, degno allievo di cotanto maestro. Intervenuto presso la sala conferenze del MUDIS, all’interno della V edizione del Festival Storiae, archeologia e narrazioni, dirà:

“Non sono venuto per mettere don Milani su un piedistallo e a mistificare il suo operato, ma per parlare di quella didattica attiva che si può applicare reinterpretando Barbiana, parlare di quelle criticità che la rendono applicabile alla luce del disagio che oggi vivono i nostri giovani, oggi nativi digitali, all’epoca figli di contadini”.

E del resto fu lo stesso don Milani, prima di morire a lasciare il testamento ai suoi ragazzi “Da morto mi esalteranno, ma voi difendetemi da qualsiasi forma di mistificazione!”

L’evento che ha voluto commemorare don Milani è stato il primo dei due incontri previsti nel Prologo del Festival, promosso, tra gli altri, dal Ceic (Centro Etnografico Isole Campane) – Istituto di studi storici e antropologici in collaborazione con il Liceo Buchner, dove l’attentissima e sensibile dirigente Assunta Barbieri, ha sorpreso ancora una volta per l’originalità dell’iniziativa e per l’attualità dell’esperienza della scuola di Barbiana. Nasce come proposta di una nuova attività formativa e culturale per i ragazzi in età adolescenziale, noi dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi di Ischia auspichiamo che si esprima e la si esperimenti in ogni declinazione possibile, immaginabile, reinventabile per i nostri ragazzi.

Anche la Diocesi di Ischia, sensibile ai nuovi disagi nascenti tra i giovani di oggi ha voluto offrire il proprio contributo, mediante l’ottimo don Emmanuel, direttore Ufficio dei beni culturali della diocesi di Ischia e il Direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali e Decano diocesano don Carlo Candido che con il suo intervento ha sollecitato nei giovani presenti quella briosa curiosità e meraviglia per un don Milani e il suo tempo, non così lontano poi dal nostro di tempo, non così distante dal modo di vedere ed intendere l’insofferenza che aleggia nei giovani, oggi come allora. Un don Milani che oggi, rivalutato e finalmente conosciuto per la sua attività, e, per quanto poco o in maniera modesta, divulgato, è stato apprezzato come fosse diventato uno dei più popolari e cliccati influencer. Lo stupore in sala ad ogni parola un po’ più colorita ha dato la misura di quanto e come i giovani vogliano essere visti, sollecitati, apprezzati e coinvolti nelle dinamiche che occorrono in questi tempi che sono i nostri ma anche i loro. Restituire una identità, del resto, è stato uno dei propositi del priore: “durante il percorso e il processo non deve cadere a terra una sola briciola di curiosità o di cultura informale capace di attivare l’identità di chi abbiamo davanti, o accanto.”

Don Carlo, chiamato a introdurre Edoardo Martinelli, allievo di don Milani, si rivolge alla platea che gli è più congeniale di ogni altra, i giovani, e utilizza lo stesso linguaggio di don Lorenzo per attirare l’attenzione dei ragazzi che, da sempre, sull’isola, segue, monitora, accompagna, sostiene. Intervistato ai microfoni dirà: “Don Lorenzo Milani ha da dire ancora tantissimo ai giovani, è stato un profeta, un contestatore, un ‘bestemmiatore’, un rivoluzionario. Parlare di lui non è semplice”.

Non è semplice oggi, come non lo era all’epoca ma forse all’epoca non esistendo i social, il pericolo che si diffondessero velocemente strane e rivoluzionarie idee educative non era così imminente.

Se non fosse che don Milani, con il nulla che aveva – una classe di figli di contadini, qualche foglio di giornale ed un locale di fortuna – riuscì a creare una didattica alternativa ai programmi scolastici istituzionali tenendo sempre a mente e facendolo tenere a mente ai suoi ragazzi che “Ogni parola che non capite è un calcio nel culo che prenderete domani. La rassegnazione è un peccato mortale”.

Da qui l’importanza della parola, la chiave che apre ogni porta, oggetto dell’incontro che si è tenuto nei locali del Museo diocesano, in Episcopio. Fondamentale, salvifica, urgente studiarla, comprenderla, darle un peso, utilizzarla e servirsene per cambiare le cose se appaiono ingiuste, modificare le leggi se appaiono inique, cambiare la storia se come la raccontano non risponde a verità.

Disse ai suoi giovani uno dei primi giorni di scuola a Calenzano: “vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò sempre la verità di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori, perché la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le sigarette”

E ancora, per far comprendere quanto e come la verità è storica, spesso soleva chiedere: “Sei d’accordo con quello che penso oggi, che ho detto ieri o che scriverò domani?”

Fondamentale, sulla parola, è lo studio di essa dalle radici, dalle profondità, affinché ognuno possa conoscere direttamente l’etimologia, discernere la valenza, interiorizzarne il significato a prescindere dal contesto ed imparare a utilizzarla per non prendere calci da nessuno nell’imminente futuro.

Sul “bestemmiatore” che don Carlo Candido mette tra le sue virgolette mimate con le dita, occorre argomentare quel tanto che basta, prima che l’esercito degli haters scagli le “prime pietre” di chi non ha peccato: «Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”.» (Da Lettera ai giudici)

“I care” propone attenzione, cura, protezione, preoccupazione, importare, tenerci, interessarsi, stare a cuore, quello di don Milani è un messaggio complesso, di non facile, univoca, traduzione, provocatorio, oggi come allora, forse un po’ di più di allora.

“I care” – Don Milani e la scuola di Barbiana

Quel “I care” milaniano è oppositivo, divisivo, militante, combattivo. Implica schierarsi, mettersi in gioco, prendere parte. Rimetterci la faccia, compromettersi. Se pensiamo alla parola bestemmia noteremo che tra greco e latino derivazioni e radici arriviamo alle parole blasfemia-ingiuriare-reputazione-diffamazione. Ne deduciamo che con la costante tensione dei più alla reputazione ed al mantenimento di essa, il nostro “I care” diventa una bestemmia perché mina quell’ onore e quel prestigio così faticosamente costruiti, come l’ha sgretolata a don Milani che con la stessa disinvoltura, sostenuto da una fede granitica, ha ricostruito e ricostruisce ogni volta che ha incontrato ed incontra detrattori che per loro stessa natura, boicottano o strumentalizzano questa o quella metodica pur di lasciare nell’ombra una didattica tanto antica eppure ancora tanto attuale.

Oggi come allora, “I care” è in netta contrapposizione al lassismo o al menefreghismo, in qualunque declinazione, Ieri il fascismo, oggi l’isolamento, vuoi dalle ingiustizie, vuoi dalla dittatura mediatica, vuoi dal qualunquismo e dalla superficialità della realtà che ci circonda. E forse non è un caso che il Liceo abbia organizzato questo incontro e che la diocesi lo abbia sostenuto. È arrivato quel momento in cui noi, i sedicenti adulti, non possiamo più far finta che il problema non ci sia.

Sarà lo stesso Papa Francesco a dire “Sono venuto a Barbiana per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve, perché sia difesa e promossa la loro dignità di persone, con la stessa donazione di sé che Gesù ci ha mostrato, fino alla croce. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Il prete «trasparente e duro come un diamante» continua a trasmettere la luce di Dio sul cammino della Chiesa. Prendete la fiaccola e portatela avanti!

Don Lorenzo era un uomo di fede e per tale ragione e forse proprio in forza di questa ragione, era capace di ribellione!

“Dirà, di fronte alla morte, nel suo testamento lasciato a noi ragazzi: “Ho amato più voi che Dio, ma spero che Lui non badi a queste sottigliezze!” V’è in queste parole una forza di provocazione e una tempesta di sentimenti che dimostrano il senso vero d’una missione incarnata e sentita.” Così si esprime Edoardo Martinelli, uno dei ragazzi di Barbiana, che ha contribuito alla stesura di “Lettera a una professoressa” e “Lettera ai giudici” e che è stato accanto a don Milani anche nei suoi ultimi momenti di vita.

Compito del sacerdote, dell’insegnante, dell’educatore, quale che sia e a qualunque titolo si accosti al ragazzo è quello di offrire, consegnare, trasmettere, trasferire i soli strumenti, logici e materiali, per consentire l’accesso alla Parola. Un buon Maestro è quello che propone strategie che insegnino ad apprendere anche una volta terminato il percorso di studi.

Che strumento usava il nostro sacerdote, così antico eppure così moderno? Non c’era la LIM, non c’era internet, pochi libri, un dizionario sul quale imparare a ricercare le parole sconosciute, esercizio di auto apprendimento, qualche volume di impolverata e logorata enciclopedia, i ritagli di quotidiani dell’epoca su cui impiantare una intera lezione – che per inciso – durava 24 ore e 365 giorni l’anno. NO, nulla di tutto questo o non solo.

“L’amore è, quindi, il suo Strumento. Lo strumento principe. Il grimaldello capace di scardinare la cassaforte dell’egoismo e dell’indifferenza.”

Don Milani amava molto i ragazzi che rapidamente diventavano i suoi ragazzi. E affermava: “Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre.”

E ancora: “Dobbiamo essere capaci di rendere i nostri studenti “cittadini sovrani” e di saper leggere nei loro occhi il domani che ci attende.”

Per fare questo c’è bisogno di una diversa scuola, come afferma Edoardo Martinelli, che è stato a sua volta insegnante. “Ci si domanda sempre se i ragazzi sono all’altezza della scuola, mai se la scuola sia all’altezza dei ragazzi. La scuola di Barbiana nasceva, invece, partendo dai bisogni dei ragazzi. Come diceva don Lorenzo: non si possono fare parti uguali, fra disuguali. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori”.

Edoardo Martinelli insiste sull’importanza della didattica alternativa ed integrata oggi perché possa reinterpretarsi e non imitare o riprodurre Barbiana:

“E’ nell’intelaiatura dello schema logico che l’educatore si trasforma da trasmettitore delle conoscenze in costruttore di processi educativi e di contesti flessibili. In poche parole, l’accesso alla conoscenza si fondava, nella nostra scuola, non sulle nozioni lette o estrapolate dal libro di testo, ma sul più elementare strumento: la realtà.”

“I suoi più grandi nemici erano il consumismo e le mode! Secondo lui la cultura consumistica non interpreta solo i desideri, ma provvede a crearli all’infinito, a trasporli in sempre nuovi e fittizi bisogni, trasformando la realtà in un immenso ipermercato. L’antica cultura contadina, invece, sarebbe compartecipe dei valori veri e dei bisogni essenziali che esprime ed interpreta. In entrambi i casi l’alienazione impedirebbe, però, l’uso cosciente della parola: “Voi li volete muti e Dio vi ha fatti ciechi!”

“Barbiana non fu mai, per questo è sempre”

Quelle due parole, I Care, secondo don Milani, creavano un movimento intraducibile, l’esperienza della scuola di Barbiana era irripetibile. Tanto l’una quanto l’altro erano realtà autentiche, originali, provocatorie a cause della sfrontatezza e immediatezza del loro messaggio, si auto alimentavano e crescendo l’una cresceva l’altro e viceversa. Tutti quelli che vi partecipavano, intervenendo, insegnavano e apprendevano. La scrittura collettiva, la didattica ragionata, la dialettica e la ricerca della soluzione, solo alcuni degli aspetti di cui Barbaiana era impregnata.

“E perciò la scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo … la chiave, non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo”. “Con la scuola non li potrò far cristiani ma li potrò far uomini”.

Da contestatore ribelle quale era, fu ritenuto scomodissimo al sistema, complicato per molti versi; don Milani era all’avanguardia già nel 1967, epoca in cui lancia una bomba alle istituzioni italiane che a quel tempo sembrò preannunciare la terza guerra mondiale, da poco terminata che era la seconda. Denuncia il sistema scolastico italiano, reo di favorire le fasce sociali più forti e mantenere ai margini dell’esistenza civile quelle più fragili.

“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.” (Lettera ai giudici)

I prodromi della ricerca estenuante di un metodo il giovane Lorenzo inizia ad intercettarli quando, non ancora sacerdote si dilettava nella pittura:

 “Il maestro mi ha parlato della necessità di vedere l’essenziale, di vedere le cose come un’unità dove ogni cosa dipende dall’altra. A me non bastava cercare questi rapporti tra i colori: ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo e ho preso un’altra strada.”

Barbiana non si può riprodurre, insiste Martinelli, non è un modello, ma è certamente l’esempio di un modo efficace di fare scuola, reinterpretarla e riadattarla secondo quel che si ha a disposizione, nel posto in cui si sta, con gli strumenti che si possiedono. Come fece e come farebbe don Milani anche oggi. Barbiana come ogni cosa UNICA, AUTENTICA, SPECIALE, non è riproducibile, è stata vissuta 12 ore al giorno, 365 giorni l’anno e malgrado qualche professore si avvicinò per carpirne il metodo, questi non riuscì nella riproduzione. I tentativi di imitazione fallirono. Il “mi sta a cuore, mi prendo cura, mi importa” richiedeva e richiede uno sforzo sovrumano che non tutti sono disposti a compiere.

Don Carlo dice che fu un profeta, certamente di profetico don Milani ebbe la lungimiranza di leggere e comprendere i tempi. Combattere l’esodo dalle campagne e difendere le comunità arroccate sulla montagna sembrava allora antistorico, patetico; quasi una romanticheria. Oggi l’esercizio della resilienza, di quella resilienza, renderebbe gli esseri umani, un po’ più esseri umani.

L’auspicio è che da questa serie di incontri, tutti, istituzioni scolastiche, diocesane, ricreative, concorrano ed aspirino all’educazione, discenti, docenti, e tutte le figure professionali e no, che a vario titolo incontrano i ragazzi, e che questi adulti vengano sollecitati dalle provocazioni che emergono (o dovrebbero emergere) con le parole, i gesti, le richieste d’aiuto, ecc. A scuola si entra con i propri vissuti, sofferenze, desideri, gioie, aspettative e desideri di rivincita, oggi come allora e trovare degli adulti che fanno il tifo per te, è un valore aggiunto che può fare la differenza nello snodo del destino.

È sotto gli occhi di tutti, o almeno di chi non vuole girare lo sguardo dall’altra parte, che i ragazzi oggi vivono una fase critica del loro percorso, dove la loro personalità dovrebbe costruirsi e non demolirsi, dove i (pochi) valori civili e religiosi, di cui hanno una blanda infarinatura come lettura da catechismo, cozzano con i messaggi di ben più alta e dirompente risonanza che esplodono dall’esterno, provenienti dal fuoco amico di amici, parenti, mass media e in questo eterno conflitto il si salvi chi può a volte limita i danni della guerra civile.

Ci vorrebbe un don Milani per ogni comune, non volutamente per ogni diocesi al fine di sdoganare il sacerdote dal Maestro, uno capace di poter dichiarare pubblicamente e senza timore di apparire irriverente:

Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura.” (Lettera ai giudici)

“L’inquietudine di don Lorenzo Milani non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, per quello che era il suo gregge, per il quale soffriva e combatteva, per donargli la dignità che, talvolta, veniva negata”. Così Papa Francesco in occasione della presentazione dell’opera omnia del sacerdote alla Fiera dell’editoria. “Come educatore e insegnante – ha aggiunto il Papa – egli ha indubbiamente praticato percorsi originali, talvolta, forse, troppo avanzati e difficili da comprendere”. “La sua era un’inquietudine spirituale – ha concluso il Papa – alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come un ospedale da campo per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati”. L’amore, dunque, il famoso grimaldello capace di muovere, scardinare, anche le più apparentemente granitiche prese di posizione, come quella di un ragazzo che chiuso dentro il suo mondo di incomprensione, pieno zeppo di “oramai”, se lo si guarda dritto nel cuore, con gli occhi del cuore, può aprire uno spiraglio e trasformare quella ferita in feritoia. Il suo mondo può rendere questo, un posto migliore. L’amore che, come l’I care o come Barbiana non si può definire, non si può tradurre né catalogare, ma solo vivere, sentire, respirare. Come? SPERIMENTANDOLO.

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