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Diga di Kakhovka: il crollo dei limiti

Il crollo della diga, indipendentemente dall’artefice, può aver sortito l’effetto di un allarme

Il crollo della diga di Novaja Kakhovka continua ad agitare le reciproche accuse tra Russia e Ucraina. E ribalza sulla rete la gag comica con cui Zelensky si esibiva nella caricatura di un crimeano assetato. Allora Kiev aveva chiuso il flusso d’acqua dolce che, dalla diga, approvvigionava la Crimea, priva di sorgenti, come ritorsione per il referendum di annessione alla Russia. Flusso riaperto nel febbraio 2022, quanto le truppe occupanti puntarono fulminee al controllo dell’invaso idrico. Ora la penisola tornerà a dipendere dalle cisterne inviate dalla Federazione.

La logica del “cui prodest?” suggerisce i possibili motivi di ambo le parti per alluvionare le aree del basso corso del Dnepr. I russi per rallentare la controffensiva a sud, dislocando forze su altri segmenti del fronte. Eppure, perché non evacuare a valle, prima che l’acqua sommergesse, con armamenti e mezzi, le strutture di difesa, campi minati compresi, sinora dispendiosamente realizzati? Perché danneggiare la diga fermando la principale centrale idroelettrica dei territori occupati, anziché aprire le paratie? Considerando poi che la riva sinistra del fiume, dove i russi sono attestati, essendo più bassa, era esposta a danni maggiori. Per converso, l’artiglieria ucraina ha bersagliato la diga a più riprese da giugno 2022, aggiungendo a ottobre l’uso di mine fluviali, dopo aver fatto già saltare due dighe più a monte. Ma per quale ragione provocare il disastro? Solo per giustificare, dopo tanta nutrita attesa, l’impossibilità di riconquistare la Crimea? E pregiudicando, proprio ora, l’agricoltura sulla riva destra?

Stavolta però l’atteggiamento di diversi leader occidentali è più prudente di quello usato nell’addebitare, sulle prime, il sabotaggio del NordStream. Non si tratta solo della cautela di non esporsi di nuovo a imbarazzanti smentite. Il clima internazionale sembra un po’ cambiato. Si consideri quanto appena accaduto dopo le dichiarazioni di Rasmussen, ex segretario Nato, sull’intervento in guerra di truppe polacche baltiche, in alternativa all’imminente ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza (peraltro in violazione del Trattato atlantico, che vieta l’adesione a Paesi con conflitti in corso). Due opzioni equivalenti all’automatico avvio della terza guerra mondiale (fors’anche atomica), che hanno ricevuto la sonora smentita di Kallas, primo ministro estone alle prese con il malessere della pur russofoba opinione pubblica interna. Indicative pure le rimostranze del Belgio, che chiede conto a Kiev della presenza delle proprie armi nelle mani dei controversi incursori penetrati a Belgorod. Negli Usa poi, oltre a Trump, un altro candidato alla nomination, il repubblicano Ramaswamy, ha dichiarato di voler porre al vertice dell’agenda presidenziale il dialogo con Mosca per cercare un compromesso e chiudere la guerra, in cambio del distanziamento dalla Cina.

Il crollo della diga, indipendentemente dall’artefice, può aver sortito l’effetto di un allarme. Pur senza turbare le certezze di chi, in base a chissà quale algoritmo, esclude il rischio nucleare, resta il segnale del superamento escalativo dell’ennesimo limite nell’uso spregiudicato di soluzioni devastanti. Lo stesso dovrebbe dirsi per il pur ignorato sabotaggio della conduttura di ammoniaca tra la russa Togliattigrad e Odessa, che ha avvelenato i villaggi attorno a Kharkov.

Prolungandosi, il conflitto si fa sempre meno controllabile, persino da Mosca e Kiev: nell’esasperazione belligera, potrebbero moltiplicarsi le iniziative estreme da parte dei protagonisti più radicali attivi sul campo. Tanto più se sull’incertezza generale grava la scarsa demarcazione delle linee rosse degli Usa, che non intendono distrarre altre risorse dal confronto con la Cina, ma non vogliono neanche collezionare un altro storico fallimento dopo Vietnam e Afghanistan. Ecco dunque la vaga formula del supporto all’Ucraina “as long as it takes”: fino a che punto? quale la soglia d’arresto? L’espressione permetterebbe di nutrire qualche speranza solo se celasse la ricerca di una via d’uscita “dignitosa”, anziché investire in controffensive mai decisive, capaci di avanzare pochi chilometri destinati a essere persi nuovamente. Nel corso di una guerra pluriennale, la frustrazione e lo sfibramento potrebbero incoraggiare colpi di mano disordinati e rappresaglie terroristiche in grado di scatenare reazioni altrettanto imponderabili. Più si rinvia l’istituzione di un canale negoziale stabile e multilaterale, più l’Ucraina si riduce in macerie, preda dell’odio fratricida testimoniato dalle parole rivolte nella tv pubblica ai russofoni alluvionati e dal fuoco sui rispettivi mezzi di soccorso all’opera sulle due rive del Dnepr.

Congelare la guerra con un’area di non-contatto e traslare lo scontro sul piano diplomatico, per rimettersi un lontano domani al principio dell’autodeterminazione dei popoli, per quanto inappagante e blasfema, pare la strada più pragmatica. Un’exit strategy lucida e lungimirante che anche Washington sa di dover cercare, per sottrarsi al vortice in cui sta trascinando l’equivalenza tra pace e trionfo militare. Sarebbe bene avvisare i gregari più agguerriti, impegnati a gareggiare per mostrarsi “più realisti del re”.

Fonte: Giuseppe Casale, Pontificia università lateranense – Sir
Immagine: SIR

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