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«Cessate il fuoco a Gaza, fermatevi. La guerra è sempre una sconfitta». È stato questo, domenica scorsa, l’appello di Papa Francesco all’Angelus per chiedere la fine del conflitto tra Israele e Hamas, culminato in questi giorni con l’operazione via terra delle Forze di difesa israeliane nella Striscia di Gaza. Un conflitto “segretamente” latente ma che, da oltre 75 anni, sconvolge il destino di due popoli – ebraico e palestinese – con tentativi di risoluzione inefficaci.

Pensavamo di esserci lasciati tutto alle spalle, e termini quali “genocidio”, “orrore”, “violenza” e “sangue” divenivano libri “polverosi” in scaffali indifferenti (ossia i nostri cuori, i nostri pensieri, le nostre problematiche). La recente guerra in Ucraina – ma, se vogliamo andare anche addietro nel tempo, con l’uscita di scena degli Usa nella situazione politica afghana nell’agosto 2021, oppure ciò che abbiamo vissuto (plurale d’obbligo!) in Siria e Libia dove le parole “tregua” o “raid” hanno sostituito il vero concetto di pace – ha rivelato le nostre fragilità, forse facendoci rendere conto come questo mondo globalizzato fosse sempre un vaso d’argilla pronto a rompersi in qualsiasi momento e a non ricercare quel pezzo mancante che trovi libertà e pace nelle nostre situazioni. Pace…che parola!

Il conseguimento della pace e la sua affermazione nel mondo è uno dei compiti più difficili ai quali i cristiani sono chiamati. A partire dalla famiglia, dalla scuola, dall’ambiente di lavoro, chi crede nella pace e vuole che questa si realizzi deve evitare la violenza, crescere nel rispetto degli altri, ricercare la solidarietà e la condivisione dei beni, adoperarsi perché vengano abbattute le barriere che tengono separati gli uomini tra loro. L’impegno della Chiesa in questo è sempre stato costante (ricordiamo che il Concilio Vaticano II ha condannato solennemente la guerra e ha invitato gli uomini a collaborare tutti insieme perché, nella giustizia, ricerchino e raggiungano una pace durevole).

Anche l’ebraico shalòm, tra le parole più comuni nella vita quotidiana di Israele quale saluto e augurio amichevole e rassicurante, designa il benessere dell’esistenza quotidiana, lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio. Eppure, citando il dizionario di dottrina sociale della Chiesa di Carlo Maria Martini: “shalòm non può significare soltanto assenza di guerra, tranquillità esteriore, equilibrio, e neppure soltanto prosperità, ricchezza, progresso; né può significare solamente una certa consolazione interiore, quasi una pace psicologica, assenza di angoscia. Esso è, invece, il bene messianico che consiste, in primo luogo, nel perdono di Dio, nel fatto di sapere che Dio perdona i peccatori; consiste nella riconciliazione dell’umanità con Dio […], nell’essere una cosa sola con Gesù, quindi nell’essere Chiesa, nel perdonare con Gesù i propri nemici, nell’offrire con Gesù e come Gesù perdono e pace a tutti”.

Storicamente parlando, si deve anche riconoscere che non sono mancate circostanze nelle quali le religioni non sono state fautrici di pace, ma sono state – anzi – viste e interpretate come fattori di incomprensione, di contrapposizione e di conflitti. Non sembra, quindi, sufficiente dire “religione” per dire “pace”; anzi spesso una religione non bene intesa può diventare uno strumento di forte identità, può incollarsi sulle identità nazionali ed etniche e rafforzarle nei loro istinti violenti (ad es. il fanatismo o il fondamentalismo).

Tutto ciò è, però, negazione dell’autentico spirito delle religioni: esse non giustificano né la violenza né il terrorismo; devono anzi collaborare per il rispetto reciproco e per la pace, e per uno sviluppo globale nella giustizia e nella solidarietà. Ne è indizio significativo, ad esempio, la pienezza di senso religioso e umano che la parola “pace” possiede anche nella tradizione musulmana (has-Salam), che collega la pace con la presenza del regno di Dio e con l’obbedienza della fede e fa dell’augurio di pace l’espressione quotidiana di saluto tra i fratelli di fede (non vi ricorda qualcuno?): a testimonianza che le grandi tradizioni religiose dell’umanità sono in grado di ispirare anche oggi la ricerca e la costruzione delle vie della pace tra gli uomini.

Più profondamente, le religioni sono e devono essere strumento di pace perché, da una parte, spingono a guardare a un orizzonte ultimo, che sta oltre ed è distinto da quello nazionale, economico e politico e, dall’altra parte, unendo insieme i seguaci di nazioni diverse, spingono a legami di amicizia e di carità, di attenzione e di preoccupazione reciproca. Dunque, cari lettori, vi pongo dei quesiti: come posso essere strumento di pace? come far emergere – concretamente – la pace? Chiesa (occhio al corsivo) cosa dici e fai per la pace?

di Davide Costa

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