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L’educazione come processo di coscientizzazione, il lavoro come strumento di emancipazione.

Ad Angri (SA) il 22 novembre 1914, da Marino e Rosalia Scarpato, nasce Enrico Smaldone. Da giovane amava studiare ma anche giocare: il suo gioco preferito era lo strummolo. Iniziò presto a frequentare il seminario e nel 1941 venne ordinato sacerdote. Oggi don Enrico è considerato un educatore “minore” ma la sua ricchezza è tale che va riscoperto. Sapeva fare di tutto e diceva: «Basta applicarsi».

Negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, il prete angrese diede vita, proprio ad Angri, ad un processo di educazione per tutti. Diede vita, cioè, alla Città dei ragazzi nella quale vi si trasferì e dove educò non solo i piccoli trovatelli ma un’intera città, coinvolgendo proprio tutti: enti, istituzioni politiche, cittadini, insegnanti, operai. Finanche dall’America arrivavano sostegni. E tutti educò alla coesione, alla collaborazione, alla riscoperta dei valori della solidarietà, alla partecipazione.

Don Enrico educò proprio gli adulti, cioè coloro che avevano e hanno modo di diventare esempio per i piccoli. Tutti a tutte le età sono infatti educabili e vanno educati attraverso forme e tipologie diverse.

Egli intese dare all’educazione un processo permanente di apprendimento per sé e per gli altri che oggi definiamo lifelong learning (formazione permanente). La sua azione formativa può essere riattualizzata nell’oggi perché le intuizioni e le ipotesi pedagogiche di don Enrico sono tutt’oggi valide. Esse NON presentano settorializzazioni quali: “l’educazione c’è solo nell’istruzione”; “l’educazione sarebbe solo per bambini o adolescenti”; “l’educazione si farebbe soltanto in alcuni contesti (famiglia, scuola, comunità di fede, lavoro, ecc.)”, quando, invece, sono tutti interdipendenti e non escludono nessuno; “l’educazione si è svolta un tempo e oggi non è più comprensibile”.

Di grande ispirazione fu per lui il film “Gli uomini della Città dei ragazzi.” Il suo progetto educativo era quello di costruire un luogo (fisico e non) dove poter riscattare i giovani dalla vita di strada, ovvero salvarli dalla corruzione perché tanti erano abbandonati a sé stessi e non avevano dove vivere. Leggiamo le sue parole: «La visione del film mi accese la febbre nelle vene. Tornai a casa sconvolto. E questo turbamento mi durò per giorni. Meditavo a lungo. Quando una mattina picchia alla porta un bimbo di otto o nove anni. Lacero, sporco, coi capelli arruffati, portava in viso i segni della sofferenza. Gli offrii l’altra metà del caffè che stavo sorbendo e lo invitai a parlare (…).»

Don Enrico voleva operare una costante e incessante umanizzazione di sé e del mondo. La “città” doveva infatti non solo fornire assistenza e educazione ai ragazzi poveri o traviati ma voleva creare una piccola città evangelica dove i suoi membri non vivessero sempre di carità ma, avviati al lavoro, si autofinanziassero con i propri stipendi.

Di lì a poco lo seguirono in imprese simili anche don Milani e Danilo Dolci.

Don Enrico si impegnò anche per la crescita e lo sviluppo dello scoutismo. Dalla filosofia di vita degli scout apprese l’idea di una formazione integrale della persona secondo i principi e i valori del fondatore Baden-Powell quali: altruismo, lavoro per gli altri, lealtà, autenticità, amore verso Dio e verso il prossimo. E anche fede illimitata nella crescita in umanità che significa pensare i bambini e i ragazzi nel loro futuro di adulti, nella loro adultità. Insegnare loro, dunque, a essere adulti e quindi puntare sulle loro potenzialità e sulla loro capacità di riuscire, per fare in modo che ciascuno possa accogliere e costruire il proprio progetto di vita.

Per la realizzazione del suo sogno, il sacerdote contagiò tutta Angri e la cittadinanza si educò attraverso la collaborazione, il fare a favore della Città dei ragazzi attrezzandola anche di macchinari necessari al lavoro specializzato dei giovani che sarebbe stato il loro strumento di crescita personale: lavoro come strumento di emancipazione. Tutti parteciparono! C’era chi pregava per la realizzazione dell’intera opera, chi offriva parte del salario, chi collaborava ai lavori gratuitamente, chi raccoglieva fondi, chi offriva parte del proprio cibo, chi donò l’area edificabile.   

Egli voleva costruire nel ragazzo l’uomo del domani – in grado di gestire da solo la sua vita, di autodeterminarsi, di essere autonomo, capace di autodirigersi nel mondo in cui vive – attraverso l’insegnamento di nuove competenze, di un mestiere come valido antidoto contro l’emarginazione. E il lavoro tecnico appreso sarebbe servito non soltanto alla città ma a tutto il Meridione e all’Italia intera.

“Ogni forma di educazione è un processo di coscientizzazione autonoma con la guida (il tutoraggio) di qualcuno che mette in condizione gli altri di capire sé stessi e la propria posizione nel mondo. Questo è un fondamentale assunto pedagogico di don Enrico” secondo il quale «Bisogna prevenire, mai reprimere. In caso di mancanza, il ragazzo deve essere amorevolmente persuaso del male commesso, perché si abitui ad aspirare esclusivamente per amore e persuasione e non mai per timore e imposizione degli altri. Perciò sono escluse le pene corporali e tutti i sistemi che importino privazioni». Per il prete angrese, l’educazione è pertanto “…un processo di libertà, di conquista personale e sociale della propria autonomia: è consapevolezza di sé…senza escludere relazioni di aiuto da parte di chi può porsi in situazione di formatore, di guida”, il quale ha fiducia nel ragazzo e lo accompagna.

Tanti furono i giovani ospitati nella Città dei ragazzi e don Smaldone – benché prematuramente e improvvisamente – il 29 gennaio 1967 poté addormentarsi sereno: «Non ho paura, la mia vita l’ho spesa per gli altri».

Grazie don Enrico!

(Tratto da: Filippo Toriello, Per una pedagogia del «lifelong learning». L’«eutopia» pedagogica di don Enrico Smaldone e la sua passione educativa. Editore Iniziative Culturali (Angri), 2023)

di Angela Di Scala

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