Tempo fa, un’amica mi confida: «Sto notando, un po’ in giro, anche negli ambienti ecclesiali, una certa diffidenza… come una mancanza di fiducia verso l’altro… e mi sembra quasi che sia anche una mancanza di fede…». Qualche giorno dopo, conversando con un altro amico, ecco giungermi delle considerazioni sull’individualismo (in accezione negativa) che abita la nostra cultura e il nostro stile sociale.
Attingo alle definizioni di individualismo che si trovano su alcuni dizionari e su internet: una posizione morale, una prospettiva sociale, una filosofia, una politica, che mette al centro l’individuo per promuoverne in particolare l’indipendenza, l’autonomia, la libertà nelle sue forme più svariate.
Detto così, nulla di strano o di male. Difatti, un certo individualismo è necessario come un certo collettivismo. È l’equilibrio dei due che consente all’essere umano di realizzare pienamente sé stesso, tenendo insieme le sue tendenze natìe, apparentemente opposte: l’essere unico, irripetibile, avere una personalità propria e una vocazione singolare, da un lato; l’essere relazione, l’essere interdipendente, l’essere parte di un tutto, dall’altro. Tant’è che il senso etico, morale, valoriale, critico, che orientano la vita della persona, per quanto ne esprimano la posizione assunta singolarmente rispetto al mondo e alle cose, attingono a entrambe le dimensioni, individuale e collettiva.
L’individualismo, da cosa buona che è in sé – come molte altre, del resto – diventa un male quando si fa ideologia, verità o priorità assoluta, calpestando ciò che è collettivo per la presunta necessità di affermare sé stesso. In molti sostengono che l’individualismo sia diventato ideologia da quando il sistema economico-sociale ha iniziato a proporre sempre più frequentemente e insistentemente la concezione di benessere e di piacere correlandola unicamente al bisogno del singolo, chiamato a concentrarsi su sé stesso e invitato a mettere da parte tutto l’altro e gli altri che egli ritiene gli impediscano di affermarsi e di godere della vita. Per quanto questa osservazione sia non solo plausibile, ma parzialmente vera, mi pare che la questione sia più complessa e sarebbe pretenzioso tentare di affrontarla adeguatamente in questo scritto che, per ovvie ragioni, va limitato nell’estensione. Ciò non toglie la possibilità di porci una domanda: cos’è accaduto prima? Come mai l’individuo, oppure il sistema sociale – che è fatto di tanti singoli messi insieme – ha avvertito l’esigenza di concentrarsi sul singolo, anche e addirittura a scapito della comunità? Penso che la domanda ci offra su un piatto d’argento la facoltà di smascherare un ingranaggio, vecchio quanto il mondo, che sottende molti processi simili: il meccanismo “attacco-fuga”, nonché l’emozione fondamentale che l’accompagna: la paura.
Lasciando stare la questione a livello globale e venendo ai più semplici contesti quotidiani: perché dovrei “chiudermi”? Perché l’altro è una possibile “minaccia”. Ho l’impressione che mi chieda troppo, che mi tolga qualcosa, che non mi lasci respirare… che mi faccia, in un certo senso, soccombere… Sento che non riuscirei a sottrarmi assertivamente.
Cosa potrebbe chiedermi l’altro, quando lo incontro per strada, alla fermata dell’autobus, al supermercato, in parrocchia…? Quando mi cerca con lo sguardo, “attacca a parlare”, tenta di trattenermi…?
Forse si lamenterà dei problemi di salute o familiari, sfogherà la sua frustrazione lavorativa o esistenziale… senza accorgersi che sono anch’io stanco; oppresso da qualcosa; che ho fretta perché oberato di impegni e situazioni da risolvere… Allora mi sentirò insofferente, impotente, “usato”… E quante volte mi è capitato già!
Oppure i suoi discorsi riporteranno a galla la mia frustrazione, quella che tanto faticosamente cerco di tenere a bada, perché ancora non so come affrontarla diversamente.
Oppure, mi chiederà di fare quel servizio in parrocchia, di aderire al tale impegno. Magari il contesto è quello in cui “la messe è molta e gli operai sono pochi”: finirei assorbito…
All’opposto, potrei provare un senso di “superiorità”, considerare l’altro troppo “semplice”, superficiale, forse addirittura sciocco, ritenere che “non vale la pena” dedicargli il mio tempo, la mia attenzione: non ci capiremmo. Anche qui, in fondo, temo: la fatica di ascoltare un altro linguaggio, di confrontarmi con un “orizzonte” di riferimento troppo diverso dal mio. Un confronto autentico potrebbe “costringermi” a scendere dal trono per mettermi alla scuola del “povero”; e se alla fine mi scoprissi più povero di lui?
Di certo non nasciamo diffidenti, sospettosi, evitanti. Anzi, i comportamenti istintivi che mettiamo in atto alla nascita – primo fra tutti il pianto – sono volti ad attirare l’attenzione dell’altro, per creare la relazione e la comunicazione senza le quali non potremmo sopravvivere: nasciamo con la consapevolezza intrinseca di essere interdipendenti.
A qualche giorno di distanza da queste riflessioni, un gatto giunge ad arricchire la mia esperienza. Un randagio, non so se nato per strada o abbandonato a un certo punto della sua vita, comincia a frequentare il mio giardino, in cerca di qualche topolino o uccellino da cacciare. Sempre guardingo, mai rilassato. La sua postura rivela la prontezza a fuggire in ogni momento, infatti scappa appena mi vede, appena teme che mi muova verso di lui… Tuttavia, non si allontana del tutto, ma quel tanto che basta a stabilire una distanza di sicurezza sufficiente per lui, una via di fuga agevole e rapida. Da lì mi osserva.
Continuo nelle mie faccende, apparentemente incurante di lui: vorrei mostrargli che non ho motivo né intenzione di fargli del male, che la sua presenza non mi disturba. Passano i giorni e la distanza di sicurezza si riduce. Comincio a lasciargli un po’ di cibo, ma lui mangia solo quando mi allontano. La distanza si riduce ancora: gli vado incontro col cibo e lui viene verso di me, ma non mi è concesso allungare la mano per toccarlo. Un bel giorno decide di provare a fidarsi: si avvicina del tutto, strofinandosi alle mie gambe. Iniziano ritorni quotidiani, pasti e coccole regolari e anche uno stare insieme senza motivo, un semplice tenersi compagnia. Il povero gatto non sa cosa lo attende: qualche giorno dopo, un cane elude la recinzione del giardino e lo afferra al collo. Il gatto si salva, per la prontezza di mia madre che lancia un oggetto addosso al cane facendogli mollare la presa. Naturalmente il gatto non tornerà più.
A distanza di tempo, lo ritrovo per strada: ha paura, ma si ricorda di me, di noi. Torno quotidianamente in quel posto, lo chiamo, porto cibo e acqua. La danza della fiducia ricomincia: sospetto, attenzione, osservazione, distanza, vicinanza, passi avanti, passi indietro, ancora avanti e di nuovo indietro… Finché un giorno inizia a seguirmi verso casa, ma davanti al cancello scappa. Così per un po’, poi rompe gli indugi ed entra. Purtroppo l’avventura non finisce: ho rafforzato la recinzione, però vedere il cane che vi si scaglia contro, anche se non può oltrepassarla, lo terrorizza ugualmente: scappa di nuovo; quell’ambiente non lo sente sicuro. Lo ritrovo per strada e la storia ricomincia, uguale alla volta precedente. Oggi, finalmente, si è “accasato”. È pur sempre un randagio, uno spirito libero, va e viene, ma torna, sempre, con la paura che gli si legge negli occhi e nell’incedere quando attraversa il cortile; e al tempo stesso con la determinazione ad affrontarla. Torna per la relazione. Da parte mia, non cerco di trattenerlo, ma lascio un posticino sempre pronto per lui, dove potersi fermare e ristorare.
Se un gatto, che è un animale (degli animali si dice siano molto intelligenti ma pur sempre dominati in prevalenza da istinti), ha compreso che la paura e la fiducia sono due facce della stessa medaglia; ne ha accettato la danza, per quanto ardua; affrontandola con la memoria del buono che si può trarre da una relazione, con il coraggio di procedere per prove (e quindi possibili errori), con la consapevolezza del rischio… tanto più noi esseri umani, cui il Creatore ha dato risorse e capacità maggiori (“l’uomo… l’hai fatto poco meno degli angeli…” recita il Salmo 8), possiamo farcela, o almeno provare a danzare il tango della relazione.
A me questo gatto ha dato una lezione di vita e di vita spirituale.
“Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Perciò siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” ha detto Gesù (Mt 10, 16).
In punta di piedi, permettetemi di aggiungere: siate (siamo) anche fiduciosi come un gatto “randagio”…
A proposito: il gatto si chiama Bellissimo. In nome e a lode di quella Bellezza che salva il mondo.
di Viera Lubrano Lobianco