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«I preti imparino l’arte di amare»

Il prefetto del Dicastero per il clero: i nostri affetti non vanno repressi ma dilatati nella fraternità. Il tema, con quello degli abusi, è stato affrontato nel Convegno di formazione che si è tenuto dal 6 al 10 febbraio

Il sacerdozio come arte di amare, il celibato sacerdotale come dilatazione degli affetti, la vita di fraternità come prevenzione degli abusi, la formazione integrale come argine all’abbandono della vita sacerdotale. Sono alcuni dei temi affrontati dal cardinale Lazzaro You Heung-sik, prefetto del Dicastero per il clero, nel giorno in cui nell’Aula Paolo VI in Vaticano prende il via l’annuale convegno internazionale per la formazione permanente dei sacerdoti.

Una Chiesa chiamata ad affrontare un cambiamento d’epoca come quello che stiamo vivendo, di quali sacerdoti ha davvero bisogno: grandi teologi o grandi esperti di umanità?

Occorrono senz’altro grandi teologi ed è importante che i sacerdoti siano esperti di umanità. Ma non tutti potranno essere grandi teologi, ed esperti d’umanità si diventa solo col tempo e “sul campo della vita”. Secondo me il punto decisivo è che i sacerdoti siano anzitutto uomini del Vangelo, disposti a lasciarsi sempre di nuovo mettere in gioco dal messaggio liberante di Gesù. Se fanno così, si sviluppa in loro una sapienza che va oltre la scienza e saranno esperti d’umanità in un modo più profondo, perché guarderanno le persone con gli occhi di Gesù e trasmetteranno loro il suo amore. Mi sembra questa la cosa più importante per un sacerdote: diventare esperto nell’arte di immedesimarsi con l’altro, di condividere le sue fatiche e le sue gioie, in una parola: nell’arte d’amare. Riscontro quotidianamente quanta felicità un sacerdote può suscitare in questo modo.

Qual è l’ostacolo più impegnativo sulla strada di un percorso formativo davvero efficace: l’illusione di sapere già tutto o il timore che il divario da colmare tra il sapere ecclesiale e la mentalità corrente sia troppo grande per tentare di farlo?

Se uno pensa di sapere già tutto, non cresce più. Pensa di essere arrivato al culmine, ma in realtà interiormente è già spento. Non si muove più, non si lascia mettere più in discussione, non osa, non rischia, non vive, vivacchia. Comunque, per me il divario tra il sapere ecclesiale e la mentalità corrente non si supera in maniera teorica. Dobbiamo essere noi a colmarlo, con la nostra vita: facendoci ponte. Vedo che, prima di parlare, è importante innanzi tutto ascoltare, saper cogliere e condividere quello che l’altro vive, anche se magari è tanto differente da noi, cercare di comprenderlo. Mi piace tanto questo passaggio della Preghiera semplice che si attribuisce a San Francesco: «Oh! Maestro, fa che io non cerchi tanto ad essere compreso, quanto a comprendere; ad essere amato, quanto ad amare». Ho sperimentato tante volte nella mia terra – e ora lo sperimento qui – che, quando si vive così, si aprono le strade, per esempio anche verso il mondo buddista, o verso gli indifferenti.

Una sezione del Convegno sarà dedicata ai percorsi per vivere l’affettività come risorsa. Ma quale tipo di affettività può vivere concretamente oggi un sacerdote nella Chiesa latina?

Assumere il celibato non deve essere un obbligo, ma una scelta libera. Nella Chiesa latina di Occidente si ritiene da molti secoli che questa scelta aiuta il processo di configurazione a Cristo e a esercitare il ministero sacerdotale nel segno di una donazione totale. Se una persona sente di non poter maturare questa scelta e accogliere tale disciplina, allora meglio che faccia discernimento su un altro stato di vita. Questo mi sembra importante. Non significa reprimere gli affetti, ma dilatarli, sentire la spinta di andare oltre la prospettiva così bella di avere moglie e figli, per vivere come Gesù, per la fraternità universale. Per me questa è un’esperienza affascinante che fa sperimentare ogni giorno la gioia della fraternità e anche una vera fecondità e paternità. Naturalmente, vivere così è sempre anche una nuova conquista. Ci sono pure momenti in cui non è facile, ma vale la pena.

Che tipo di rapporto c’è tra educazione all’affettività e prevenzione degli abusi, una delle questioni che affronterete nel Convegno?

Un’affettività repressa e vissuta in modo chiuso, non condivisa con trasparenza con qualcuno che ci accompagna, rischia di andar fuori strada. Per me la migliore prevenzione è una reale vita di fraternità, tra i sacerdoti e con tutti. Per me è stato sempre un dono poter far vita comune con altri sacerdoti, avere dei fratelli con cui condividere gioie e dolori e anche le inevitabili prove. Non solo a livello spirituale ma anche trascorrendo insieme momenti di relax, di riposo, di vacanze. Detto questo, la prevenzione degli abusi richiede anche attenzioni e misure specifiche di cui stiamo prendendo sempre più coscienza. La Chiesa è sempre in cammino e penso che i passi sinora compiuti siano passi importanti.


Come essere preti nella Chiesa missionaria e sinodale
di papa Francesco? «Occorre saper ascoltare e condividere,
facendoci ponte con tutte le fragilità dei nostri giorni
E camminare insieme»

​Cosa si intende con il termine “formazione comunitaria”? Perché è importante oggi per i sacerdoti?

Mi sembra una cosa ovvia, anche se nella formazione in passato si è puntato spesso soprattutto sulla dimensione individuale, che del resto non deve mai mancare. È innegabile poi che, nelle condizioni in cui viviamo oggi, nella società dilaga un grande individualismo che porta alla solitudine; un fenomeno che coinvolge anche i preti e può far loro molto male. L’essere umano è un essere sociale, è fatto ad immagine di un Dio che è comunione, l’essenza stessa della Chiesa è comunione. Tutto questo non può non riflettersi nella formazione sacerdotale: non è un optional né un accessorio secondario. Se no, come il prete può essere esperto di umanità e come può essere ministro al servizio di una comunità?

La Chiesa sinodale sollecitata da papa Francesco quale cambiamento impone nei percorsi di formazione permanente dei sacerdoti?

Dobbiamo puntare su quanto ho appena detto. C’è da far strada in questo. Il Concilio Vaticano II ha parlato dei presbiteri quasi esclusivamente al plurale, mentre oggi si parla troppo spesso del prete al singolare. Occorre “comunionalizzare” il prete, e non solo il prete, ma tutti i battezzati. Dobbiamo imparare a camminare insieme: soffrire insieme, gioire insieme, decidere insieme, agire insieme. Per i sacerdoti questo significa vivere più immersi nel popolo e fare più fraternità anche tra loro. E ne nasce un grande frutto: Gesù ha promesso ai suoi di essere in mezzo a loro quando sono uniti nel suo nome.

Oggi troppi sacerdoti decidono di lasciare il ministero. Ritiene che tra i motivi di queste decisioni, oltre a fragilità personali in cui è sempre difficile indagare, ci siano anche ragioni dettate da carenze formative?

È un fenomeno doloroso e, purtroppo, in crescita. I motivi sono molteplici legati anche al tempo in cui viviamo. Vari sono già venuti in evidenza in quest’intervista. Per me il punto è che il prete deve essere innanzi tutto un cristiano vivo, un discepolo di Gesù, come sottolinea la Ratio fundamentalis, cioè il documento base per la formazione sacerdotale, emanata nel 2016. Molto prima che confrontarsi con le esigenze del ministero pastorale, bisogna confrontarsi con le esigenze del Vangelo e imparare a rispondervi. Bisogna puntare decisamente su questo nella formazione integrale.

Nella prospettiva di una formazione missionaria quali sono le nuove vie pastorali a cui sono chiamati oggi i sacerdoti?

Le sfide sono tantissime, legate a quel cambiamento d’epoca di cui abbiamo già parlato. Basta pensare al tema della rivoluzione digitale che ha preso un certo rilievo nelle riflessioni della recente Assemblea sinodale, o alle questioni legate a una diversa visione di “famiglia” che dilaga nella cultura odierna. Per me il nucleo di tutto è questo: dobbiamo passare da una pastorale di “manutenzione dell’esistente” a una pastorale generativa, e questo non è solo una domanda dei mezzi e dei metodi che adottiamo, ma richiede di rivolgere il nostro sguardo a Gesù Crocifisso e Risorto.

di Luciano Moia Avvenire

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