Sono visite sempre ricche di umanità, incontri capaci di rivitalizzare ambienti che magari non ricevono un saluto – una benedizione appunto – per tutto l’anno o anche di più
Ogni anno, durante il periodo di Quaresima, i sacerdoti delle parrocchie vengono a benedire le case e in esse le nostre famiglie. È un gesto semplice, eppure molto significativo, oggi ancor più che qualche decennio fa. Quando, infatti, la società poteva dirsi cristiana non solo nelle radici, ma anche nelle fronde, ovvero, diffusamente, di generazione in generazione, in modo vivo e concreto, la pratica religiosa era qualcosa di abituale, condiviso, perfino dato per scontato. Nei paesi, come nelle città più grandi, ci si riconosceva attorno alla chiesa della comunità e i rintocchi delle campane radunavano per ogni ricorrenza, all’Angelus delle dodici, all’Ave Maria del vespro, a morto in occasione di un funerale, o la domenica mattina, a festa, per significare il giorno del Signore. Ogni ora che il giorno scandiva era un tempo in cui la vita degli uomini e quella di Dio si fondevano in un unico ritmo, senza soluzione di continuità.
Oggi non è più così, ma non si può essere succubi della tentazione di farsi sterili laudatores temporis acti. Non è vero che “si stava meglio quando si stava peggio…”, né che la vita della Chiesa fosse più fervida all’epoca dei nostri nonni e ancor meno dei nostri genitori. Il fatto che la fede sia contemplata come più legittima, più diffusa, con più diritto di esserci, di avere uno statuto e una riconoscibilità sociale, non ha nulla a che vedere con il fervore spirituale… allo stesso modo in cui quando l’Imperatore Costantino rese il Cristianesimo religione di Stato nell’Impero Romano, questo non comportò che i fedeli della Via – come venivano chiamati coloro che professavano la fede in Cristo Gesù – automaticamente divenissero più consapevoli e coraggiosi testimoni rispetto alle centinaia di martiri che testimoniarono con la morte violenta, nei giochi circensi, che non erano disposti a considerare loro Dio nessun altro uomo all’infuori di chi era morto in croce per loro a Gerusalemme e poi risorto.
Oggi, in Europa, viviamo un tempo di scristianizzazione e sappiamo bene che le cosiddette radici cristiane non sono state riconosciute come un patrimonio condiviso dalla maggior parte degli Stati dell’Unione, i quali hanno considerato segno di autonomia laica e democratica negare la loro storia comune; come se fosse possibile cancellare che siamo “nani sulle spalle dei giganti” e che dobbiamo la nostra identità a secoli e secoli di pensiero nutrito alle fonti della Bibbia, Parola di Dio e della tradizione della Chiesa, fondata dagli apostoli Pietro e Paolo e che ha trovato in Roma il suo centro propulsore.
In questo nostro tempo – come ci ha più volte illustrato, con saggezza unita a speranza incrollabile, Papa Benedetto XVI – siamo un piccolo gregge attorniato da lupi famelici: la Chiesa è quella piccola manciata di lievito che è chiamata a far fermentare un’enorme pasta fatta da milioni di uomini inconsapevoli che la vita possa essere bella, buona e felice. È per questo motivo e con questo intento – spero di poterlo dire senza tema di smentita – che Papa Francesco ci sprona, fin dall’inizio del suo pontificato, ad essere Chiesa in uscita.
Non c’è bisogno di grandi spiegazioni per comprendere che non possiamo adagiarci nella gratificazione di liturgie e condivisioni che siano destinate solo a coloro che fra i battezzati hanno ricevuto la Grazia di sentirsi attratti dall’Eucarestia del Signore, dal desiderio di lode per la misericordia multiforme di un Dio Padre che, nel Figlio, ci dona il Suo Spirito. Come a Pietro, Giacomo e Giovanni, il Signore ci dice di scendere a valle; non possiamo rimanere sul monte! Non è bene fare tre tende e rimanere soli con Lui, questo è ciò che sarà quando saremo tutti in tutto nel suo nome e nel suo corpo, ma, durante questo nostro cammino terreno, ciò che ci viene chiesto è di non stancarci di annunciare il Regno; solo se necessario con le parole – come diceva con arguzia San Francesco – ma principalmente con la nostra vita, ossia con un amore che si dona senza risparmiarsi, in tutte le circostanze; in ogni situazione e contesto, opportune et inopportune, secondo un’ardita espressione di San Paolo.
Con questo ardore i sacerdoti che, per vocazione, hanno la cura delle anime che popolano il nostro territorio, si prodigano nel visitare e benedire tutte le case e le famiglie che compongono la porzione di Chiesa che si raduna in assemblea nel tempio parrocchiale. Sono visite sempre ricche di umanità, incontri capaci di rivitalizzare ambienti che magari non ricevono un saluto – una benedizione appunto – per tutto l’anno o anche di più. Tante case nelle caotiche vie della città sono piccole celle di monasteri inesistenti: luoghi di solitudine e sofferenza, di tristezza non consolata dai sacramenti, se non raramente. Non si vede, ma spesso la vita del quartiere ha velocità diverse… ci sono le famiglie con i figli piccoli che vivono la fatica, ma anche l’entusiasmo di contribuire al motore sociale, ci sono tanti che si isolano o sono emarginati, loro malgrado dal tritacarne dello spasmodico efficientismo postcapitalista di cui siamo artefici e vittime… A questi e a quelli, ai protagonisti laici della vita attiva della Chiesa e a tutti coloro che ne fanno parte a pieno titolo, in quanto battezzati, ma magari lo hanno dimenticato, o forse neanche lo sanno: a tutti arriva prima della Santa Pasqua, a domicilio nell’intimità delle mura di casa, l’annuncio vero e sempre nuovo che Dio ama ciascuno di noi con amore infinito di padre e di madre e il suo Figlio Gesù è morto e risorto perché ciascuno di noi, dal più piccolo al più grande, abbia la vita e l’abbia in pienezza.
di Giovanni M. Capetta – Sir