Entrare senza paura nel passaggio d’epoca, saldamente ancorati alla tradizione e nello stesso tempo aperti alle nuove istanze. Non si condanna il mondo, bensì lo si comprende: l’importanza dell’ascolto per la Chiesa. Le comunità siano centri di cultura e spiritualità
Ho fatto una piccola ricerca con Google, e sono rimasto impressionato da qualcosa che non mi aspettavo di trovare. Cercavo di capire cosa caratterizzasse in modo proprio il famoso “cambiamento d’epoca” dell’ormai abusato slogan “Non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca”. Confesso: ritenevo quest’espressione piuttosto recente, e usata per primo da Papa Francesco. Ho scoperto invece che era già usata oltre 15 anni fa, e in ambito non certo ecclesiale. Ad esempio, in un articolo del 2012 si afferma: «La crisi non è economica ma sistemica.
Questo vuol dire che attualmente [nel 2012, si badi bene!] siamo concentrati a far vivere un sistema vecchio che, se anche ripartisse, resterebbe in piedi per un altro decennio per poi ricadere in crisi… Non è un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca. Da anni si adoperano nuovi termini come social innovation, sharing economy, peer-to-peer production… Dietro queste parole, che non devono assolutamente spaventare, esistono quegli anticorpi che sono in grado di generare un vero cambiamento sistemico e di creare una nuova economia dove la conoscenza sarà il vero petrolio». Per me è stata una vera e propria sorpresa, del tutto inaspettata.
Scoperta inattesa, ma anche prevedibile e illuminante. Prevedibile, perché ancora una volta arriviamo come Chiesa a comprendere con colpevole ritardo le dinamiche delle trasformazioni sociali e culturali di quel mondo di cui dovremmo invece essere luce e sale (cfr. Mt 5,13-14). Questo è accaduto spesso nella storia, e sta accadendo di nuovo oggi, a causa di un rapporto sbagliato con il mondo, visto come una realtà che in modo colpevole cammina per i fatti suoi sempre più lontana da Dio. A questo, da bravi credenti, ci sentiamo in dovere di porre rimedio: così, ogni nostro sforzo è teso a riportare le pecore perdute all’ovile, e non prestiamo attenzione a quello che il mondo ci sta dicendo. In altre parole, manca l’ascolto proprio da parte di chi dovrebbe avere l’orecchio aperto per ascoltare ogni mattina (cfr. Is 50,4-5). Non solo: ma in questo modo giudichiamo il “mondo” in modo negativo e lo condanniamo senz’appello, dimenticando che Dio ama il mondo e ha donato il Figlio per salvarlo, non per condannarlo (cfr Gv 3,16-17).
Siamo invece chiamati come Chiesa a porci non “di fronte” e “contro” la realtà di oggi e di sempre, ma “dentro” di essa, non a contrastare i radicali e sostanziali mutamenti che stanno attraversando questo tempo, ma a comprenderli e a orientarli. Siamo, cioè, chiamati a condividere il travaglio, a essere partecipi del parto! Il profeta è colui che guarda la storia dell’uomo con gli occhi di Dio e non se ne tira fuori, ma l’ama, dialoga con essa, se l’assume e la sa orientare. In questo senso, la scoperta di cui dicevo all’inizio è anche illuminante: essa traccia quasi un cammino, delinea un compito.
Che peraltro è già qualcosa di visto, nella storia degli ultimi duemila anni! Per fare solo qualche esempio, si pensi al tempo del crollo della civiltà classica, e della struttura politica che la incarnava, quell’Impero romano che cadde sotto i colpi dei barbari. Allora, a farsi carico del passaggio a una nuova epoca furono i monaci delle abbazie, che seppero operare una sintesi tra il vecchio che moriva e il nuovo che irrompeva prepotente sulla scena della storia.
È quel che fecero, secoli dopo, anche gli Ordini Mendicanti – per intenderci, Domenicani e Francescani, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura – che favorirono il passaggio dal Medioevo all’età moderna. Insomma, oggi è forse arrivato il momento di entrare senza paura in questo “passaggio di epoca”, saldamente ancorati alla tradizione e nello stesso tempo aperti alle nuove istanze, operando una nuova sintesi tra esse. Bisogna far sì che le nostre comunità diventino veri e propri “centri di cultura e di spiritualità”, dove far incontrare la proposta cristiana e le inquietudini e le aspettative del mondo di oggi, consapevoli che, se non facciamo ciò, smettiamo di essere sale: e il sale che non è più sale, «a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente» (Mt 5,13).
di Pino Natale