A Santa Maria del Cedro si producono e vendono i frutti migliori per la tradizionale festa ebraica del Sukkot, e arrivano a costare anche 15 euro l’uno
In una stanza al pianterreno di una palazzina di tre piani a Santa Maria del Cedro, un comune cosentino di 5mila abitanti, il rabbino Menachem Lazar seleziona i cedri per la festa ebraica del Sukkot. Li prende da una cassetta, ne osserva attentamente le dimensioni e la forma, controlla se ci sono imperfezioni o macchie, li pulisce con un fazzoletto di carta e li ripone in una confezione di cartone, una per ogni cedro. Se un frutto non lo soddisfa, lo mette in una cassetta a parte. In fondo alla stanza adibita a magazzino, tre persone – due contadini locali e un giovane proveniente dal Marocco – preparano le spedizioni. Su ogni scatola viene incollato un adesivo con il nome e cognome dei destinatari, scritti in ebraico. Alla fine della mattinata, cinquecento confezioni da un cedro ciascuna sono pronte per essere inviate alle comunità ebraiche di tutto il mondo.
La maggior parte delle richieste gli arrivano dagli Stati Uniti, dove il movimento chassidico ortodosso Chabad-Lubavitch, di cui fa parte, ha la sua sede principale, nel quartiere newyorkese di Brooklyn. Altre spedizioni sono dirette in Russia, dove suo fratello è a sua volta rabbino, in Ucraina, dove alcuni rabbini sono stati ricevuti dal presidente Volodymyr Zelensky, e alle comunità ebraiche italiane, in particolare quelle di Milano e Roma, dove lui vive «da 15 anni». In Israele invece ne spedisce pochissimi, «qualche centinaio», perché «lì hanno una grande produzione locale di cedri e ritengono quelli calabresi troppo costosi». Il prezzo per ogni cedro calabrese va dai 10 ai 15 euro ciascuno, a seconda degli accordi stipulati dai singoli rabbini con i coltivatori.
Il Sukkot, o «festa delle capanne», è una delle principali ricorrenze ebraiche. Ricorda la vita nelle tende durante il viaggio nel deserto dall’Egitto verso la Terra promessa e si celebra alla fine del raccolto agricolo estivo. Quest’anno si svolge dal 16 al 23 ottobre. Durante le celebrazioni, che durano una settimana, i partecipanti portano un cedro nella mano sinistra e un fascio di rami di mirto, di palma e di salice legati con un filo di canapa nella destra, che vengono agitati secondo un preciso rituale. Per questo ogni anno tra giugno e settembre decine di rabbini provenienti da tutto il mondo si trasferiscono a Santa Maria del Cedro, dove si produce una varietà di cedri particolarmente indicata per le celebrazioni, poiché hanno la forma conica che consente di tenerli in una mano sola e la scorza liscia come prescrive la Torah, il principale testo religioso dell’ebraismo. Inoltre, al momento della raccolta sono di colore verde lucente, il che li rende più pregiati delle altre varietà.
I religiosi ortodossi seguono tutte le fasi della lavorazione. Ispezionano i campi e scelgono gli alberi da frutto, che non devono avere meno di quattro anni e non devono essere stati innestati. Poi partecipano alla raccolta selezionando i frutti da raccogliere, che devono avere appunto la forma conica, essere lisci, lucidi e senza macchie. Infine sovrintendono al confezionamento e alla spedizione. I cedri che, nonostante l’accurata selezione al momento della raccolta, hanno delle imperfezioni vengono messi in una cassetta a parte. Finiranno sul mercato a un prezzo molto inferiore rispetto a quello pagato dai rabbini. Non esiste invece una regola per le dimensioni. I cedri somigliano a dei grandi limoni e possono arrivare a pesare anche più di 300 grammi, ma quelli più richiesti pesano più o meno 80 grammi. «La maggior parte dei fedeli li vuole piccoli e leggeri per poterli portare facilmente in mano, però c’è anche chi li chiede grandi», fino a 25o grammi, spiega Lazar. Per questo ogni spedizione è personalizzata. Poiché sono stati appena raccolti, sono quasi tutti ancora verdi, anche se «per la festa di Sukkot, a ottobre, saranno diventati gialli».
È così dall’inizio degli anni Cinquanta, quando il rabbino Moshe Lazar, il padre di Menachem, tutte le estati cominciò ad andare in Calabria proprio per controllare che i frutti per il Sukkot fossero «puri» secondo le regole ebraiche, cioè nati da piante senza innesti. «Fino ad allora i contadini li vendevano a un solo negoziante, che a sua volta li rivendeva a dei commercianti di Genova che li esportavano poi in tutto il mondo. Finché a un grossista che stava a Lugano venne voglia di venire fin qui a vedere. Quando arrivò, scoprì che i cedri erano stati innestati con l’arancio amaro e lanciò l’allarme a tutti. Da allora veniamo personalmente», ha raccontato Moshe Lazar. In paese sostengono che grazie a lui la coltivazione di questi agrumi è sopravvissuta all’abbandono delle terre da parte dei contadini cominciata già negli anni Settanta del Novecento, alla speculazione edilizia che tra gli anni Ottanta e Novanta ha visto nascere decine di residence e villette per i turisti che cercavano una seconda casa al mare, e all’emigrazione giovanile che ha spopolato i paesi della costa tirrenica negli ultimi vent’anni. Per questo il Comune nel 2018 ha dato a Moshe Lazar la cittadinanza onoraria e nel Museo del cedro, che si trova in un antico opificio cinquecentesco ristrutturato dove si trasformavano i prodotti della campagna circostante, c’è una foto a tutta parete che lo ritrae al lavoro in una cedriera sotto i tipici graticci, delle reti che servono a proteggere gli alberi soprattutto dal vento, costruiti tradizionalmente con le canne che in questa zona crescono spontanee oppure con reti di plastica e assi di legno.
Santa Maria del Cedro si trova al centro della cosiddetta «Riviera dei cedri», che si estende per ottanta chilometri lungo il mar Tirreno nella parte più settentrionale della Calabria ed è composta da 21 comuni. Qui si coltiva la gran parte dei cedri italiani, in una varietà che è detta «liscia diamante» proprio perché non è rugosa e alla raccolta è di colore verde brillante. L’antropologo calabrese Mauro Francesco Minervino sostiene che sia stata portata in Calabria proprio dagli ebrei. «Nell’alto Tirreno cosentino la coltura del cedro risale alla presenza in zona di comunità ebraiche sin dai primi secoli dell’era cristiana», ha scritto. Avrebbero continuato a coltivarli fino alla loro espulsione da parte degli spagnoli, avvenuta nel 1541. Domenica 15 settembre, in un incontro organizzato al Museo del cedro per la Giornata europea della cultura ebraica, Roque Pugliese, referente della piccola comunità ebraica calabrese di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha detto che «sono riusciti a cacciare gli ebrei ma non a sradicare i cedri che questi avevano piantato».
Fino agli anni Ottanta, da queste parti si producevano 160mila quintali all’anno di cedri su 4 chilometri quadrati di terreni. Poi la coltivazione degli agrumi andò in crisi. «I contadini cominciarono ad abbandonarla perché i frutti erano pagati pochissimo e la produzione non era più remunerativa», dice Angelo Adduci, presidente del Consorzio del cedro. Ogni pianta produce tra i 60 e gli 80 cedri all’anno e la raccolta è faticosa perché gli alberi sono pieni di spine. «Bisogna avere molta pazienza per raccoglierli, e se sono pagati troppo poco non ne vale la pena», dice un contadino. Inoltre, all’epoca lungo tutta la riviera non c’era neppure un’azienda che li trasformasse in canditi, cedrate, marmellate, liquori o in creme e altri prodotti cosmetici. «Tutti i cedri erano lavorati fuori dalla Calabria perché qui non c’erano aziende che potevano trasformarli, e i grossisti stritolavano i coltivatori pagandoli molto poco», spiega Adduci.
Negli ultimi anni, l’aumento delle richieste dalle comunità ebraiche ha fatto più che raddoppiare il prezzo dei cedri, che è passato da 60 a 200 euro al quintale, e ha spinto molti contadini a tornare a coltivarli. Sono aumentate le piantagioni e sono nate anche diverse piccole aziende che li trasformano in prodotti alimentari o cosmetici. Adduci sostiene che la ripresa della produzione di cedri sia dovuta anche al lavoro di promozione e di conoscenza fatto dall’Accademia internazionale del cedro, un’associazione che è nata proprio per valorizzare la coltura del frutto e i suoi prodotti, alla creazione di un marchio per i prodotti della riviera dei cedri e alla creazione del Museo del cedro, che l’anno scorso ha registrato 50mila visitatori. Al Consorzio del cedro di Calabria contano trecento produttori affiliati, quasi un chilometro quadrato di cedriere, una produzione annua che è risalita a 20mila quintali e un giro d’affari di cinque milioni di euro all’anno, di cui la metà arriva dalla vendita alle comunità ebraiche.
A maggio del 2023 la Commissione europea ha iscritto i cedri della «riviera» nel registro della Denominazione d’origine protetta (DOP), che indica i prodotti tipici di alta qualità legati alla zona in cui vengono prodotti e ai metodi tradizionali di coltura, proteggendoli da eventuali contraffazioni. «Il colore, la forma e la consistenza della scorza sono unici e strettamente legati sia ai fattori climatici tipici della fascia costiera tirrenica della provincia di Cosenza sia al fattore umano. L’utilizzo del graticcio è la tecnica tipica della zona di produzione di questo agrume, è ciò che influisce sull’aspetto finale del prodotto e serve a proteggere i frutti dal vento invernale, ma anche dai raggi solari», ha scritto la Commissione per motivare il riconoscimento.
«Il nostro obiettivo è di arrivare nei prossimi anni a una produzione di 40mila quintali all’anno e di aumentare la percentuale di trasformazione dei cedri sul nostro territorio», dice Angelo Adduci, presidente del Consorzio. Quest’anno però l’eccessivo caldo estivo ha fatto ritardare la raccolta e ne sono stati prodotti solo 12mila quintali. Le piante di cedro sono molto delicate e la raccolta dei frutti risente molto dei cambiamenti climatici. Soffrono gli sbalzi di temperatura e il caldo o il freddo eccessivi, per questo i contadini utilizzano i tradizionali graticci per proteggerli. «Hanno bisogno di un clima temperato e in questa zona hanno trovato delle condizioni ideali, perché qui si incrociano le correnti calde che arrivano dal mare e quelle fresche provenienti dalle montagne. Quest’anno però è stato particolarmente caldo e la produzione ne ha risentito», spiega Adduci. Per questo anche la raccolta è cominciata in ritardo. Quando, agli inizi di settembre, si è svolta l’annuale «festa del cedro», al lavoro nei campi c’era un centinaio di rabbini.
di Angelo Mastrandrea
Immagine di copertina: Il rabbino Menachem Lazar in una cedriera di Santa Maria del Cedro (Angelo Mastrandrea/Il Post)