Il 25 marzo si è celebrato il Dantedì. La Divina Commedia non fu una fuga dalla realtà, ma il grido di gioia di chi vide che la speranza non può esserci tolta perché è piantata in Cielo.
A 700 anni dalla sua morte, celebriamo Dante: il 25 marzo è il giorno in cui il poeta inizia il viaggio nell’aldilà raccontato nella Divina Commedia.
La Divina Commedia non è un capolavoro
Celebrare è un verbo altisonante. E in effetti il poema dantesco ci appare colossale: enorme e perfetto, come uno di quei castelli imponenti che svettano in cima a un colle. Ma la verità dietro la facciata è esattamente opposta. Non avremmo la Divina Commedia se Dante non avesse conosciuto l’incertezza, la paura, i passi che incespicano, i dubbi che tolgono il fiato.
Ci è amico e compagno ancora oggi perché l’ipotesi di quel poema che tutti chiamano capolavoro nacque nel momento più brutto della sua vita. Fu un’opera scritta in esilio, un canto alla volta e senza la pacificante certezza che tutto sarebbe confluito in un risultato finale compiuto, trionfale, da celebrare nei secoli.
Noi ora lo stringiamo tra le mani come libro, dimenticando forse che non abbiamo il testo originale della Commedia. Ci manca, è perduto. (Quel che resta è il lavoro entusiasta di copisti che non vollero perdere qualcosa che ritenevano prezioso. E se a qualcuno venisse da mettere in dubbio tutto, chiedo: incontrando gente che canta a squarciagola all’uscita di un concerto, ti verrebbe da dubitare che abbiano davvero ascoltato un bravo cantante?).
Non c’era una casa, uno studio, un cassetto in cui il poeta custodiva i suoi fogli. Dante cambiava luogo di residenza, girava per l’Italia, scriveva una manciata di canti, li mandava a diversi destinatari. Poi per qualche periodo non scriveva nulla. Poi qualche altro canto nasceva dalla sua penna, senza avere sott’occhio i precedenti.
È questa la prima cosa che ci assomiglia tanto: Dante non fu mai sicuro che la Divina Commedia sarebbe diventata un capolavoro. Non la guardò mai come un trofeo da ammirare sulla scrivania. C’era una visione che gli riempiva l’anima, e tentò di rincorrerla e agguantarla giorno per giorno. Ci pianse su molto.
In più punti del poema ci confessa che è duro scrivere, lo fa tremare e diventare magro:
Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott’esso trema:
(Paradiso XXIII, 64-66)
Sentiva bruciare l’idea di un disegno grande – mostrare che l’Amore è una presenza che dal cielo penetra nella terra, nel nostro cuore – ma non poteva far altro che aggiungere piccole sillabe giorno per giorno. E c’erano giorni bui in cui il silenzio pesava come piombo. Ed era un senza fissa dimora.
La morte come punto fermo
I nostri giorni non sono forse così? C’è sotto ogni nostra mossa il desiderio ardente di avere davanti agli occhi un quadro fatto e finito, il nostro destino dipinto nei minimi dettagli, un’immagine da esibire. Non accadrà finché siamo nel mezzo del cammin di nostra vita. Ci siamo in mezzo, cogliamo frammenti, ci sfugge tanto, le ombre coprono dettagli importanti. E poi verrà la morte a mettere un punto definitivo, magari in un momento che noi non avremmo voluto come definitivo.
Già, la morte. Fu proprio lei a dare a Dante una spinta forte. Beatrice morì giovane. Come stare di fronte a un’obiezione del genere? Come si permette la morte di mettere, all’improvviso, dei punti fermi nelle frasi che io vorrei costruire più articolate, più lunghe, più piene di aggettivi? La Vita Nuova è l’opera in cui Dante arriva a questo punto di svolta: basta raccontarsela, basta usare la penna per imbastire spiegazioni bellissime che però si sgretolano come un castello di sabbia di fronte all’ipotesi che non posso salvare chi amo.
[…] apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna.
(Vita Nuova)
L’inizio della Divina Commedia è qui, nel dolore di uno scrittore che dice a se stesso di stare zitto. Qui finisce la parola che spiega e se la racconta. Dante interrompe tutti i suoi scritti in prosa (li lascia incompiuti), perché intuisce che l’impresa più folle possibile, necessaria quanto assurda, è scrivere un poema in poesia.
Poesia vuol dire avere un sacco di limiti: è parlare undici sillabe alla volta (e non una di più), essere vincolato dalle rime, dalle terzine. Poesia è avere davanti agli occhi una pagina in cui lo spazio bianco e vuoto è più grande di quello scritto. Ed è un punto di vista molto onesto. Quanta parte di ogni nostra giornata è un mistero per cui non abbiamo parole?
Il calcio doloroso della morte è ciò che oggi ci permette di avere tra le mani un capolavoro come la Commedia. Non solo Beatrice morì, ma anche Dante: perché essere in esilio significava diventare un nulla dal punto di vista della società civile. Non è dalle nostre qualità migliori che nascono i frutti, ma dai tagli sulla nostra pelle vulnerabile.
Una felicità presente che sfugge
Va detto brevemente che il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità
(Epistola a Cangrande)
Questo è il primo commento alla Divina Commedia, e lo scrisse Dante stesso: spiegò a Cangrande della Scala lo scopo del suo poema. C’è un’insistenza sui viventi e sulla vita. E allora perché? Se il dramma struggente è dare un senso al presente, perché scrivere una storia che sembra una fuga nell’aldilà?
Ciascuno di noi può fare una semplice prova empirica. Sfogliamo i nostri post su Facebook, o i nostri selfie su Instagram. Se dovessimo scegliere una sola di quelle frasi o di quelle foto per dire: “Ecco, questo mi rappresenta in modo definitivo”, quale prenderemmo? Nessuna, perché ci renderemmo conto che sono solo istantanee passeggere. Al netto dei filtri e della retorica, sono inquadrature reali ma di piccoli frammenti.
Il presente non può spiegare la nostra presenza. Ciascuno di noi è in grado di creare un foltissimo album di selfie e ritrovarsi senza un vero ritratto di sé. Paradossale eh? Abbiamo per le mani tanti istanti, nessun quadro finito.
Se solo potessi parlare con qualcuno che ha davanti a sé tutta la sua vita e la vede in modo compiuto … – questo pensò Dante. E capì che doveva andare nell’aldilà. Perché le anime dei morti sono questo: gente che contempla per l’eternità il suo volto compiuto, dannato o beato che sia.
Il critico americano Charles Singleton usò l’immagine della freccia: le anime dell’aldilà sono frecce che hanno colpito il loro bersaglio. Alla luce di quel traguardo tutto il volo per arrivare fin lì – istante per istante – risulta finalmente chiaro. Quella che ora – nell’attimo presente – mi pare una caduta, alla luce del mio destino complessivo potrà rivelarsi come uno dei momenti più decisivi in cui ho fatto davvero i conti con la felicità.
Una speranza piantata coi piedi nel cielo
È solo l’eternità che può mettere a fuoco il presente. Il fondamento della nostra presenza non è da cercare nella cronaca di giornata, ma laggiù dove tutto è piantato nel Cielo. Si lo so, verrebbe spontaneo dire lassù: quando noi pensiamo all’eterno, pensiamo al cielo e pensiamo in alto.
Di recente alcune riflessioni di C. S. Lewis su Dante mi hanno offerto un’immagine bellissima su cui riflettere. Nel canto XXVIII del Paradiso il Tempo è rappresentato come un albero che cresce a rovescio, con le radici piantate nel ‘vaso’ del cielo (il Primo Mobile). Quello che noi viviamo come tempo di vita sono i rami di quell’albero, le ultime fronde di una pianta che può crescere perché attaccata con le radici al Paradiso.
Ecco perché Dante va nell’aldilà, per stare con i piedi davvero per terra … cioè nel cielo. Ci va anche per raddrizzare la vista, e si rende conto che l’uomo resta precario finché non ribalta tutto. Deve mettersi gambe all’aria per accorgersi che ciò che lo tiene in piedi non sono le strategie, le pianificazioni e i feedback. Tutte queste belle cose sono solo foglie – mosse da ogni tipo di vento – non radici.
Senza questo orizzonte ribaltato, ci sarebbe da restare un po’ sorpresi leggendo le prime parole del Paradiso. Proviamo a chiederci: se dovessi descrivere il regno dei cieli quale verbo mi verrebbe in mente per primo? Volare, o qualcosa del genere. E invece il Paradiso comincia così:
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
(Paradiso, I, 1-3)
La gloria di Dio penetra. Che azzardo! C’è pure un’allusione sessuale mica tanto velata. La gloria non se ne sta in alto, ma si ficca dentro il mondo. Lo feconda. La gloria di Dio non si innalza, ma precipita come un fulmine e si pianta dentro la terra per permetterci di germogliare.
C’era bisogno di fare un viaggio dell’altro mondo per vedere questa speranza che non si può estirpare dai nostri giorni, proprio perché ha le radici salde nell’eternità. E solo un’anima ferita che temeva di perdere ogni cosa, e soprattutto se stesso, poteva avere gli occhi sufficientemente lavati dalle lacrime per meravigliarsene con gratitudine.
Fonte: Annalisa Teggi – Aleteia