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Candidata agli Oscar 2021 nella categoria Best Original Song (Migliore Canzone Originale), non stupisce che la canzone “Io sì (Seen)” di Laura Pausini sia in lizza per il riconoscimento più ambito al mondo insieme al film di cui è colonna sonora “La vita davanti a sé” con Sofia Loren.

Un brano che non può che accompagnare la solitudine di quanti per forza o per amore si ritrovano a condividere lo stesso tetto, come i protagonisti del film che la canzone segue: un’improbabile famiglia allargata che tuttavia supera i limiti del proprio vissuto, le barriere dei propri traumi e con altrettanta intensità si ritrova ad unire le contrapposte forze, se pur per quel breve momento che segna il declino di una delle due esistenze. Proprio per questo lo rende più accettabile, delicato, comprensibile. In una scena velocissima, su un letto dove sono depositate stanchezze e malattie, paure e frustrazioni, ricordi e poche speranze, due mani si incrociano, una ha la pelle bianca, avvizzita dall’età, dalle rughe dei ricordi che svaniscono col tempo e dal codice alfanumerico di Aushwitz; l’altra è più giovane, di colore nero, dura, impertinente, con la rabbia di un’età che è stata violata, tonica, elastica eppure già antica: una mano che ha già rubato, ha già spacciato, ha già mentito malgrado la giovane età. Una mano che ha imparato in fretta a stare sola, senza il tocco rassicurante materno, senza la guida autorevole paterna. Eppure si incontrano, estranee, si sfiorano, superano la refrattarietà delle difese alzate dal tempo e dalle avversità e si incrociano in un abbraccio in cui solo le mani stanche sanno riposare e trovare ristoro quasi a dire “sto qui” come nel brano, anche “quando finisci le parole”, “quando impari a sopravvivere e accetti l’impossibile”, “quando non sai più dove andare”, “sto qui”.

Parole tanto semplici quanto forti che accompagnano scene e storie altrettanto intense: imparare a sopravvivere, non saper dove andare, alzare le barriere, sentirsi invisibili tanto da respirare sulla propria pelle che il non essere visti è peggio che non vivere.

La storia è stata già raccontata in un libro e riproposta in altra pellicola, oggi ha un sapore diverso, ha una percezione impalpabile più vicina al nostro sentire, racconta di isolamento, nascondimento, solitudine e alienazione. Racconta di vite che se anche si dovessero spegnere, nessuno le piangerebbe, nessuno se ne accorgerebbe. Forse.

I ricordi sbiadiscono, la memoria diventa un privilegio specie quando si tratta di lasciare andare i traumi dell’Olocausto, scritti sulla pelle e nell’anima devastata che ogni giorno si reinventa sprazzi di felicità, come un passo di danza improvvisato, come una passeggiata nei vicoli del quartiere o solo il rintanarsi nel sottoscala dei ricordi, dove madame Rosa, la p5rotagonista, si sente al sicuro, dagli estranei, dai pericoli, dalle bombe e dagli anni che impietosi hanno portato nella sua vita terrore e distruzione. Eppure in quel sottoscala, irraggiungibile dal mondo, conserva un ricordo che vale la pena di difendere rispetto a tutti gli altri: una cartolina sgualcita che ritrae l’albero di mimosa che faceva ombra alla casa di villeggiatura, un ricordo felice, di un tempo lontano, quando la famiglia andava in vacanza e come nella cartolina che conserva, sbiadito dal tempo e dalla malattia. Ricordo di un giallo intenso, di sole, di mimosa, di estate che la protagonista vorrebbe trattenere, rinunciando, in cambio, anche a tutti gli altri.

Quanto è vicino il messaggio di quel tempo al nostro di tempo, al nostro vivere come se non vivessimo, al nostro aver terminato le parole e nello smarrimento, riuscire a malapena a sopravvivere. Quanto somiglia al nostro, quell’accettare l’impossibile, quel non sapere quale destino è quello che ci passa affianco, a distanza di almeno un metro; quanto ci lasciamo cogliere impreparati dal guizzo inaspettato e insospettabile di umanità che distrattamente ci ritroviamo ad incrociare, una cosa mista ad incanto e realtà, come propone la canzone, per poi scoprire che spesso è proprio ciò che serve, l’incanto e la realtà, a volte basta quello che c’è, la vita davanti a sé.

“La vita davanti a sé” è il premio finale, il riscatto, il carrarmato vinto nel gioco di “La vita è bella”, capolavoro di Benigni. La vita davanti a sé è quanto sopravvive all’ingiustizia, all’infelicità, alle difficoltà della quotidianità. È tutto quello che non è stato ucciso, è un fiato che, con non poche difficoltà, esce e sopravvive in uno sguardo di fratellanza, in un sorriso di comunità, in un gesto di generosità che ciascuno, distrattamente o consapevolmente, tira fuori, e quel che ne consegue si dispiega con l’unione di più fiati, più respiri, più speranza, ed eccola lì, dipanarsi più visibile, con le ombre dei ricordi che diradano, la vita davanti a sé.

Quando tu finisci le parole
Sto qui Sto qui
Forse a te ne servono due sole
Sto qui Sto qui
Quando impari a sopravvivere
E accetti l’impossibile
Nessuno ci crede, io sì
Non lo so io
Che destino è il tuo
Ma se vuoi
Se mi vuoi sono qui
Nessuno ti sente, ma io sì
Quando tu non sai più dove andare
Sto qui
Sto qui
Scappi via o alzi le barriere
Sto qui
Sto qui
Quando essere invisibile
È peggio che non vivere
Nessuno ti vede Io sì
Chi si ama lo sa
Serve incanto e realtà
A volte basta quello che c’è
La vita davanti a sé
Non lo so io
Che destino è il tuo
Ma se vuoi
Se mi vuoi
Sono qui
Nessuno ti vede, io sì
Nessuno ci crede, ma io sì

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