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Se l’uomo è un’opera d’arte infranta

Omelia di Mons. Lagnese

Domenica 14 febbraio 2021

Lv 13,1-2.45-46; Sal.31; 1 Cor 10,31 – 11,1; Mc 1,40-45

Non fa mancare la sua voce in Cattedrale Mons. Lagnese, nostro Amministratore Apostolico dal 19 gennaio scorso, nella domenica che precede l’inizio della Quaresima, VI del Tempo Ordinario, una domenica che già nella Liturgia della Parola sembra voler anticipare le tematiche quaresimali della guarigione dal peccato che attanaglia l’uomo.

L’attenzione di Mons. Lagnese si concentra inizialmente sulla analogia, fin troppo evidente, tra la lebbra, pericolosa e contagiosa malattia che affliggeva le persone al tempo di Gesù, e ancora oggi non del tutto debellata, e la pandemia attuale che sta flagellando il nostro mondo di oggi.

Come il Covid19, anche la lebbra costringeva gli ammalati all’isolamento, una condizione atroce, che associava il decorso terribile di una malattia inguaribile – che aveva come epilogo la morte – alla solitudine forzata. I lebbrosi – ci ha detto Mons. Lagnese – ‘erano morti che camminavano’, che la società dell’epoca teneva a debita distanza, come si evince dal brano del Levitico dal quale la Liturgia attinge per la Prima Lettura “il lebbroso se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento”.

Nel brano si trovano infatti le indicazioni concrete che Mosè dette al suo popolo, su incarico di Dio, sull’atteggiamento da tenere di fronte alla lebbra. Il pensiero di Mons. Lagnese va a quanti a causa del Covid19 hanno perso la vita nella solitudine: « Questa era dunque una malattia che conduceva alla morte, ma si trattava di un morto che camminava, così veniva considerato il lebbroso, anche perché era costretto a una morte sociale, come le tante persone che sono state nelle sale di terapia intensiva, nelle sale di rianimazione, e non hanno potuto avere contatti con nessuno: quante persone di cui abbiamo saputo, costrette ad un isolamento terribile, costrette a non poter neppure chiamare al telefono i proprio cari…».

Ma per i lebbrosi al tempo di Gesù c’era un altro motivo per rendere la loro condizione ancora più insopportabile: la convinzione che la malattia, considerata sintomo di profonda impurità, nascondesse un giudizio divino, una maledizione causata dal peccato. Ecco dunque che l’allontanamento dalla sfera sociale era conseguenza non solo del pericolo – per altro reale – di contagio fisico, ma anche della paura di un contagio spirituale, come se la malattia fisica potesse portare con sé la maledizione divina.

Tutto ciò costringeva chi era affetto da questo morbo a rendere visibile a tutti la propria condizione, fino ad arrivare, in epoca medioevale, – ha ricordato Mons. Lagnese – all’uso di un campanaccio al collo del lebbroso per segnalarne la presenza. Nel brano del Vangelo di Marco, Gesù si inserisce in questo contesto che confondeva il piano fisico con quello spirituale e, avvicinato da un lebbroso che grida la sua disperazione e lo provoca, quasi sfidandolo, affinché lo guarisca, lo tocca e concede la guarigione. Qui però Mons.

Lagnese sposta l’attenzione dal piano strettamente ‘clinico’ o ‘sanitario’ della situazione, ad un piano spirituale, poiché qui non si tratta solo di guarigione o liberazione dal morbo. Gesù accetta la richiesta del lebbroso perché ‘ne ha compassione’.

Ma questa compassione che prova Gesù – precisa Mons. Lagnese –  non è semplice pietà, ma è un sentimento ben più profondo, che lascia comprendere come in sostanza la relazione tra la malattia e la condizione di peccato dell’uomo non fosse poi così lontana dal vero anche nella mente di Gesù , che è preso da un sentimento di indignazione: « come se, di fronte a quella situazione, terribile, di morte, di carni putrefatte, Gesù in qualche modo sentisse nel suo cuore un moto interiore, un movimento delle viscere – significa proprio questo la parola compassione – per cui non ci sta, non può sopportare quella scena, per cui quella situazione non lo fa stare sereno: è mosso da un sentimento di indignazione e quasi come se volesse dire: “Che ti è successo? Come mai sei diventato così? Tu non eri così! Tu non sei così! Tu, nel cuore di Dio, non sei così!”.

È come se Gesù, in quel momento, vedesse in quell’uomo lebbroso tutto ciò che è capace di fare il peccato all’uomo, quel che è capace di combinare il peccato, perché il peccato è una cosa con la quale non dobbiamo scherzare, il peccato è una cosa seria» Il peccato rovina quell’opera d’arte perfetta che Dio aveva creato.

Ma l’uomo invece ha smesso di indignarsi, si è abituato alle brutture del peccato, procede nella storia con una sorta di malefica assuefazione al prodotto del peccato, sprofondando nella indifferenza. Mons. Lagnese non può fare a meno di citare un libro – la storia di Joy, sulla quale vi relazioniamo in questo numero del Kaire- nel quale è descritto l’abisso del peccato nel quale è capace di cadere l’uomo.

Ma Gesù non rimane indifferente, ci insegna a reagire, a toccare con mano le ferite, per poter guarire e guarirci. E lo fa senza paura, a costo di diventare, per questo suo gesto di compassione, egli stesso un lebbroso, costretto a fuggire nei luoghi deserti.

E non vuole si riveli il suo prodigio, non vuole pubblicità. Conclude Mons. Lagnese: «È bellissimo: sembra che si siano invertiti i ruoli, sembra che sia cambiata la situazione, ora è Gesù che deve stare “fuori, in luoghi deserti”, è lui il lebbroso. Lui si fa lebbroso per me, per te, perché io e te possiamo essere guariti. Che avvenga, nella nostra vita, con l’aiuto di Maria. Amen».

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