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“Se non giochi con me, mi uccido.” E’ agghiacciante, ma è accaduto e accade continuamente ai nostri ragazzi, adolescenti e bambini che incautamente, e spinti ormai da una dipendenza conclamata, navigano nel mare magnum di internet alla ricerca di giochi sempre più violenti e pericolosi. Stava per accadere al tredicenne della provincia di Varese salvato in extremis dalle forze dell’ordine su indicazione di un’amica. Anche questa è ludopatia e colpisce sempre più frequentemente i “nativi digitali”. Bella espressione. All’inizio suonava come qualcosa di positivo, intelligente, moderno; adesso invece mi fa pensare al peggio. Significa solo che ormai si nasce già in un mondo virtuale e fasullo che di reale ha, forse, solo il soddisfacimento dei bisogni fisici primari: respirare, bere, mangiare, dormire. Con chissà quali sogni poi! E la realtà che fine ha fatto? Quella che dovrebbe accompagnare e favorire la crescita fisica ed emotiva del minore? Partiamo dalla grande malata, la famiglia. Esiste ancora? Non so più come definirla. Agli inizi degli anni Sessanta si parlava di famiglia mononucleare (padre, madre, figli) che soppiantava quella patriarcale allargata a nonni, zii e nipoti. Qualcosa di simile oggi c’è, ma è tutt’altro: famiglie allargate, fratelli di padre o di madre, fidanzati nuovi di zecca per mamma o papà, nuclei misti, figli avuti in giovinezza e nuovi pargoli nati dall’ultima fiamma di cinquantenni separati e in cerca di una nuova occasione. Oggi pare che il concetto stesso di famiglia generi confusione, anzi pare che non sia più né mononucleare né allargata, semplicemente mono. Nel senso che ogni componente è un’isola, chiuso nel suo mondo virtuale. Non penso di esagerare. Se fate una passeggiata e vi guardate intorno, vi renderete conto che ognuno è completamente succube del proprio telefonino. Giovani madri con le figliolette al seguito di sei o sette anni intente allo stesso modo ciascuna sul proprio cellulare. E quando le saluti o non ti vedono proprio, o ti rispondono anche con aria seccata. Ora se le cose stanno così, immaginate che cosa accade tra le mura domestiche. C’è poco da fare, internet regna sovrano in ogni casa, è diventato il dio del nostro tempo. Pensateci un attimo: non ha confini né limiti: né di spazio (è in ogni luogo, senza essere in alcun luogo), né di tempo (è disponibile quando voglio). Questa sensazione di accessibilità globale è resa ancora più facile dai cellulari che, nati come mezzi di comunicazione, ormai sono compagni insostituibili di tante persone. Eppure studi di tutto rispetto hanno messo in luce che alcuni adolescenti hanno sviluppato una vera e propria dipendenza da questi strumenti, se passano notti insonni per controllare ossessivamente il loro cellulare, alla ricerca di eventuali messaggi ricevuti. L’impressione è che invece di utilizzare noi la tecnologia come strumento, siamo divenuti noi strumenti di chi gestisce quella tecnologia. É’ proprio questo che è accaduto alla bambina di Palermo che “per una sfida digitale” si è chiusa in bagno, si è legata al collo una cintura che ha fissato al termosifone ed è morta per asfissia. Non si è assolutamente resa conto che stava partecipando ad una sfida mortale: il “black out challenge”, un folle “gioco” che va di moda fra adolescenti e bambini, diffuso soprattutto su “Tik Tok”. La procedura è sempre la stessa. Una richiesta di amicizia su uno dei social e poi il delinquente di turno, lancia la sfida. Tristemente famoso è il gioco proposto da “Jonathan Galindo” (questo il nome del profilo da cui arriva il contatto). Si vede la faccia di una maschera di Pippo, il personaggio della Disney, ma quello che propone agli innocenti giocatori non è un gioco, ma una strada senza ritorno, un incubo. Una gara fatta di piccoli step con difficoltà sempre più elevate con punizioni corporali, lesioni volontarie, fino al suicidio. Tra le prove richieste – come raccontano alcuni ragazzini sui social – c’è quella di incidere con una lama sulla pelle dell’addome le iniziali del proprio nome ma anche il numero del diavolo 666. La rete internet, i videogiochi sono tutti strumenti dai quali dovremmo ricavare beneficio, non divenire un disturbo compulsivo e quindi un pericolo per le nuove generazioni. Ma questo, a volte, non lo capiscono neppure i genitori che in altro modo sono vittime di questi dispositivi diabolici. Sono convinti di vigilare sull’attività digitale dei loro figli, ma non sospettano neppure lontanamente le insidie e i pericoli mortali in agguato. Impediscono ai loro bambini di rotolarsi nell’erba, arrampicarsi sopra agli alberi, andare a scuola da soli perché è pericoloso, ma consentono loro di trascorrere ore davanti a videogiochi violenti, chattando on line (anche con perfetti sconosciuti). Sono centinaia in tutto il mondo i bambini e gli adolescenti caduti nella trappola di Jonathan Galindo, rimettendoci la vita. La vita capite? Sono mesi se non anni che psicologi ed educatori lanciano l’allarme sui pericoli a cui sono esposti gli adolescenti nell’utilizzo della rete, ma nessuno li ascolta. Un tentativo lo sta facendo l’AIAC – L’Accademia Italiana del Codice di Internet che si è posta l’obiettivo di definire un insieme di regole, un codice per il corretto accesso alla rete, per l’utilizzo moderato della tecnologia nel rispetto degli utenti. Ma il compito delicato e impegnativo dell’educazione dei figli spetta in primo luogo ai genitori, i custodi ai quali sono stati affidati da Dio, ricordiamocelo. Ma spesso, difronte a certi comportamenti, mi chiedo “Quis custodiet custodes?”(Chi custodirà i custodi?). Come se lo chiedeva Giovenale nelle Satire, quasi duemila anni fa. Chi deve proteggere un bene prezioso, e i figli lo sono, deve essere in grado di proteggere prima se stesso. Di dare l’esempio. Per evitare tragedie che sono sotto gli occhi di tutti.

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