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Quel pomeriggio di maggio in cui spararono a Papa Wojtyla. E mio padre lo curò

Non è facile a distanza di tanto tempo ordinare i ricordi di un pomeriggio di maggio di 40 anni fa. I ricordi personali si sono mescolati e saldati con quelli familiari e con le tante immagini viste negli anni ed è difficile distinguere tra ciò che è effettivamente ricordo di qualcosa vissuto quel giorno e ciò che è stato visto, vissuto ed ascoltato dopo.

Per attenermi ai ricordi, utilizzerò i riferimenti di orari presenti negli appunti di mio padre relativi a quel giorno.

In quel pomeriggio di maggio assolato a Roma, quaranta anni fa, io e mio fratello eravamo a studiare in stanze separate, come sempre, mia madre era in cantina e mio padre (medico personale del Papa e Direttore dei Servizi Sanitari dello Stato della Città de Vaticano) era in ufficio.

Sapevamo che generalmente si affacciava alle udienze per vedere se andava tutto bene. Si sentiva il rumore di elicotteri in cielo. Squillò il telefono e risposi io. Era Lorenzo Pozzo, allora direttore della Federazione nazionale della stampa italiana e amico da decenni di mio padre e di tutta la famiglia, che mi chiese se mamma era in casa, e, a seguito della mia risposta negativa, se c’era mio fratello maggiore. Gli diede la notizia che avevano appena sparato al Papa. Mia madre tornò dalla cantina e la informammo.

Uniche fonti di informazioni, in quel mondo ormai lontano, erano la televisione e la radio. Accendemmo la prima e passammo le ore a vedere e ascoltare le edizioni straordinarie, angosciati per la sorte di Giovanni Paolo II e chiedendoci dove fosse papà e se gli fosse successo qualcosa.

Solo dopo sapemmo che quel giorno, per caso (o per intervento della Provvidenza, sarebbe meglio dire) mio padre aveva posticipato il passaggio in Piazza ed era rimasto in ufficio, approfittando della presenza in Piazza San Pietro di un altro medico a cui aveva demandato un primo controllo. Questi lo chiamò. “Hanno sparato al Papa” gridò. L’assenza dalla Piazza al momento dello sparo consentì a mio padre di non rimanere bloccato nella folla e di potere attendere l’arrivo dell’ambulanza.

A casa probabilmente, perché non ne ho un chiaro ricordo, arrivarono e si fecero telefonate, ma certo non si ebbero informazioni. Le sensazioni erano miste, incredulità, angoscia per il Papa, un po’ di ansia per il capofamiglia (anche se non ricordo particolari timori che fosse rimasto ferito anche lui), desiderio di sapere e di capire.

L’assenza di telefoni cellulari, oggi sembra un’epoca preistorica, impediva comunicazioni dirette. È strano ripensare ad un mondo dove le informazioni erano veramente centellinate. Forse, perché non so se è proprio di quel pomeriggio, una riflessione sulla facilità di compiere un simile atto ci fu.

La sera arrivò la prima telefonata di papà, per dire che la situazione era grave e di pregare per il Papa. Ripiombammo nel silenzio e nell’assenza di informazioni. Seguendo gli appunti di mio padre, questo è quello che era successo quel pomeriggio. “Ore 17.19 di mercoledì 13 maggio 1981 In Piazza San Pietro esplodono due colpi di arma da fuoco che colpiscono Giovanni Paolo II.

La jeep bianca lascia velocemente la Piazza e raggiunge la Direzione dei Servizi Sanitari dello S.C.V. Il Papa viene deposto a terra nell’androne dell’edificio e sommariamente da me visitato. Il Papa è cosciente, obbedisce ai comandi elementari, muove le gambe, ha tutti i polsi arteriosi pulsanti. E’ notata una piccola macchia rossa sulla fascia che cinge l’abito bianco. Il Santo Padre è adagiato sulla barella di una delle due ambulanze sopraggiunte.

Alle ore 17,29 l’ambulanza parte e, varcato il cancello di Sant’Anna, si dirige al Policlinico Gemelli per mia disposizione, convalidata dal Segretario (l’allora don Stanislao Dziwisz). Durante il percorso la sirena dell’ambulanza si blocca e l’autista rimedia pigiando disperatamente il clacson.

Durante il viaggio la veste del Santo Padre viene sollevata, si osservano i pantaloni impregnati di sangue, si nota la frattura delle falangi distali del secondo dito della mano sinistra e la ferita di striscio del gomito destro. Durante il trasporto la pressione arteriosa si riduce senza raggiungere livelli critici. Nell’ambulanza il Santo Padre si lamenta con gemiti sommessi ed invoca ininterrottamente in polacco “Gesù, Maria madre mia”.

Alle ore 17,36 l’ambulanza raggiunge il Policlinico Universitario Gemelli”. L’auto della polizia, che scortava l’ambulanza e avrebbe dovuto farle strada, l’ha seguita per tutto il percorso non riuscendo a superarla. “Alle 17.50 il Santo Padre è sul letto operatorio.

Alle 23.25 termina l’atto chirurgico”. Mio padre tornò a casa il giorno dopo per riposarsi per poco tempo e per cambiarsi il vestito, macchiato del sangue del Papa. Circa trent’anni più tardi sono venuto a sapere da chi era allora ragazzo e lavorava nella tintoria dove fu portato a lavare, che per un attimo pensarono di non lavare il vestito del medico macchiato di sangue del Papa, dicendo che si era perso.

Il giorno dopo la vita riprese. Abituati e istruiti a negare il fatto che nostro padre fosse il medico del Papa, l’intervenuta ufficialità della sua presenza fece sì che il nostro segreto da mantenere, e di cui eravamo sicuramente orgogliosi, non avesse più motivo di essere.

Ricordo però ancora un particolare. Il giorno prima dell’attentato, il 12 maggio 1981, il Papa aveva compiuto una visita ufficiale alla Direzione dei Servizi Sanitari dello S.C.V.. All’uscita aveva pronunciato le parole “Arrivederci presto”. Credo che nessuno dei presenti le abbia mai dimenticate.

Fonte: Paolo Buzzonetti – Sir
Immagine da: Wikipedia.it

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