Sembrerà strano, ma il Campionato europeo di calcio interpella la mia fede. «Don Mauro, posso pregare perché l’Italia vinca?». È una domanda che ogni prete si sente rivolgere in queste ore e la risposta positiva è ovvia: come dei bambini possiamo chiedere a Dio nostro Padre qualsiasi cosa, purché non sia cattiva, non sia in se stessa un peccato. Per esempio, non è lecito pregare perché «riesca la rapina in banca», ma è lecito far diventare oggetto di preghiera qualsiasi aspirazione buona o anche solo indifferente.
Dopo aver spiegato questo al mio interlocutore e averlo fatto riflettere che probabilmente anche la squadra avversaria avrà tifosi che pregano il loro Dio per la vittoria della loro, mi chiedo però che tipo di fede sia quella che spinge a coinvolgere Dio in faccende tanto poco importanti. A maggior ragione se proprio in questo Europeo di calcio in tanti si sono trovati uniti nella preghiera per il giocatore Christian Eriksen, colpito da un malore durante la partita Danimarca-Finlandia, e poi ripresosi.
Da un certo punto di vista, il senso della preghiera per la vittoria della propria squadra del cuore è sintomo di infanzia spirituale, del sentirsi figli di Dio, dell’essere convinti di essere bambini tanto sicuri dell’amore del Padre da non pensare di ‘disturbarlo’ per qualcosa di così ‘poco importante’. In fin dei conti, il rilievo di ogni vicenda umana rimpicciolisce di fronte all’immensità della maestà divina.
Rimane però il rischio di vedere Dio come un ombrello che ci ripara dai problemi, anche se i problemi connessi con un’eventuale sconfitta degli azzurri sono davvero piccoli. Basta guardare la vita di Cristo per convincersi che avere fede non ha niente a che vedere con una polizza assicurativa tale da garantirci facilità di vita.
In realtà la risposta alla domanda se sia bene o male pregare perché vinca la squadra per la quale tifiamo, riguarda la qualità del nostro cuore. Il secondo libro dei Re, nella Bibbia, ci racconta un gesto molto particolare compiuto dal Re Ezechia. Siamo nel periodo che va dal 727 al 698 a.C. e questo re riesce a distruggere gli idoli che il popolo d’Israele aveva cominciato ad adorare. Tra cui – ecco il fatto di rilievo – frantumare anche quel serpente di bronzo che aveva fatto Mosè.
«Ezechia eliminò le alture e frantumò le stele, abbatté il palo sacro e fece a pezzi il serpente di bronzo, eretto da Mosè; difatti fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Necustan» (2Re 18,4). Quel serpente di bronzo aveva fatto la sua comparsa quando gli ebrei erano nel deserto ed erano stati puniti da Dio.
Allora il popolo aveva chiesto a Mosè di pregare e YHWH aveva ordinato a Mosè di fare un serpente e di metterlo sopra un’asta così che chiunque, morso, se lo avesse guardato sarebbe guarito. «Quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita» (Numeri 21,69). Quel serpente di bronzo era stato costruito da Mosè in obbedienza a Dio, era nato come ‘sacramento’ di una teofania, sarebbe dovuto rimanere come memoria di un momento decisivo della storia ma Ezechia decide di distruggerlo.
Quell’oggetto, ricordo di una storia benedetta e costruito dal profeta più grande, era diventato un idolo: infatti il testo aggiunge: «Fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Necustàn» (18,4).
È proprio in quella venerazione, in quel bruciare incenso, in quel dargli un nome, la ragione della decisione di Ezechia di distruggerlo. Mosè aveva fatto costruire anche l’Arca dell’Alleanza, che al tempo di Ezechia era ancora custodita nel tempio di Gerusalemme, ebbene il serpente di Mosè fu distrutto, l’arca no. L’arca era rimasta un simbolo, un memoriale che parlava delle cose giuste, il serpente no: gli era stato dato un nome, non era più soltanto un simbolo, era un idolo, e per questo il profeta lo distrugge.
Divertiamoci pure con gli azzurri e, se ci va, preghiamo perché vincano. Ma non facciamoli diventare il nostro idolo. Impariamo a distinguere il serpente dall’arca. Lasciamo che le cose rimangano nel loro significato originale che è quello di essere creature incapaci di darci salvezza. Tifiamo pure per Mancini ma non facciamolo diventare un idolo.
Fonte: Mauro Leonardi – Avvenire