Presentato il 18 giugno a Roma il volume dedicato al ruolo di Karol Wojtyla durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica: gli sforzi per ricostruire relazioni diplomatiche con Mosca e ricostruire la Chiesa cattolica.
Il curatore del libro, il professore dell’Università Gregoriana Jan Mikrut afferma: “Conosceva bene i drammi dei cristiani sotto il comunismo, fu instancabile nel dialogo e nell’impegno ecumenico” La caduta dell’Urss nel 1991 fu una svolta nel pontificato di Karol Woytjla e aprì una nuova fase per i cristiani duramente provati da oltre settant’anni di comunismo.
Il volume “Giovanni Paolo II e la Chiesa cattolica in Urss e nei Paesi sorti dalla sua dissoluzione”, curato dal teologo e storico Jan Mikrut, professore all’Università Gregoriana e pubblicato da Gabrielli Editore, racconta la storia di quegli anni, dall’arrivo di Michail Gorbaciov al potere a Mosca ai viaggi di Giovanni Paolo II nelle Repubbliche post-sovietiche. Il libro è stato presentato durante un webinar presso la Pontificia Università Gregoriana alla presenza del cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, del cardinale Sigitas Tankevicius, arcivescovo emerito di Kaunas e dell’arcivescovo metropolita Ioann della Chiesa ortodossa. Ne abbiamo parlato con il curatore:
Professor Jan Mikrut, quale era la situazione dei cattolici in Urss al momento della dissoluzione?
La situazione della Chiesa cattolica in Unione Sovietica era molto differente a seconda dei luoghi e difficile soprattutto dopo il 1945, quando furono inseriti all’interno dell’Unione Sovietica, Paesi come Lettonia, Lituania, Estonia, Bielorussia, Ucraina. Questi territori erano storicamente legati alla Chiesa cattolica in Polonia e alla cultura polacca, e avevano una vita religiosa molto intensa, che fu piano piano soffocata dal governo sovietico. Si potrebbe dire che il territorio dell’Unione Sovietica era diviso in tre fasce di libertà religiosa a seconda del numero dei cattolici.
Alla prima fascia appartenevano le Repubbliche baltiche – Lituania, Lettonia ed Estonia – dove la Chiesa aveva una maggiore libertà rispetto al resto dell’Urss. Soprattutto in Lituania c’era una vivace e numerosa comunità cattolica. A Kaunas per esempio in quel periodo – e questo è molto importante – fu organizzato un Seminario maggiore. Un altro era a Riga, in Lettonia, per formare i futuri sacerdoti in tutto il territorio dell’Unione Sovietica. Ma questo non deve illudere. A Kaunas prima c’erano diversi seminari con centinaia di seminaristi, che nel periodo sovietico divennero solo 25-30. La stessa situazione c’era a Riga, dove era molto difficile avere un posto in seminario perché chi era accolto o meno era stabilito dalla autorità governative sovietiche.
Nella seconda fascia della libertà religiosa c’erano intense comunità cattoliche come per esempio quelle in Bielorussia, in Ucraina o nella parte europea della Russia. Qui dopo la guerra ci sono state subito le difficoltà dovute al comunismo e nel 1945 fu mandato via l’ultimo vescovo che era ancora presente in questi territori. I cattolici erano allora curati da piccoli gruppi di sacerdoti che lavoravano in condizioni molto difficili, perché per poter svolgere qualsiasi lavoro pastorale avevano bisogno di un permesso speciale delle autorità amministrative sovietiche. Il resto del territorio dell’Urss apparteneva alla terza fascia. dove non c’erano chiese aperte e non c’erano formalmente sacerdoti autorizzati, anche se ce ne erano alcuni che in modo eroico, ma in clandestinità svolgevano la loro funzione religiosa come era possibile.
Con il crollo dell’Urss e con gli incontri tra Giovanni Paolo II e Michail Gorbaciov ricomincia il dialogo con la Russia. Qual è stata l’azione che il Papa ha compiuto per i cristiani per ricostruire la Chiesa nello spazio post-sovietico?
L’importanza di Giovanni Paolo II per la Chiesa in Unione Sovietica è dimostrata dalle sue iniziative, dai documenti, dalle encicliche, ma anche dimostrata dai fatti con la ripresa dei rapporti diplomatici tra il Vaticano, l’Unione Sovietica e i Paesi che sono succeduti. I primi avvicinamenti si hanno nel 1988 quando la Chiesa ortodossa ha celebrato solennemente il millesimo anniversario dal battesimo della Rus di Kiev, alla quale prese parte anche una delegazione ufficiale del Vaticano.
Nello stesso anno Michail Gorbaciov annunciò la glasnost e la perestroika nella sua politica. Un cambiamento epocale è legato alla visita di Gorbaciov in Vaticano il 1 dicembre 1989. Giovanni Paolo II era commosso da questa visita, essendo consapevole che si trattava di un alto rappresentante del sistema sovietico che da decenni, in modo raffinato, organizzava la persecuzione della Chiesa e della vita religiosa dei cattolici sul territorio. In quell’occasione Gorbaciov si mostrò disponibile ad aprire la strada alla collaborazione e così il 29 gennaio 1990 fu nominato un nunzio apostolico per gli incarichi speciali presso il governo dell’Unione Sovietica, Francesco Colasuonno, che arrivò a Mosca il 6 maggio 1990.
Il nunzio visitò la Bielorussia, l’Ucraina, la Lituania, la Lettonia, le Repubbliche centroasiatiche ed era festeggiato in modo molto vivace come rappresentante del Papa, e come se il Papa fosse presente. Incontrò anche i pochi vescovi che c’erano ancora in Lituania e in Lettonia, i sacerdoti che operavano in clandestinità e iniziò un dialogo con gli ortodossi e presto furono preparate le nomine per i vescovi in Lituania, in Lettonia, in Ucraina e nelle altre repubbliche sovietiche. E poi si parlò anche della possibilità di creare due diocesi in Russia – a Mosca e a Novosibirsk – e alla fine il 10 maggio 1990 fu nominato il rappresentante dell’Unione Sovietica presso la Santa Sede, Yury Karlov. Ad ottobre fu approvata in Urss la legge sulla libertà di coscienza e le organizzazioni religiose che ha riconosciuto anche le organizzazioni religiose cattoliche.
Le popolazioni che hanno incontrato Giovanni Paolo II nei suoi viaggi, come accolsero la visita del Papa dopo oltre decenni di comunismo?
Il sogno di Giovanni Paolo II e di altri Pontefici, era – ed è ancora – quello di poter andare in Russia. Giovanni Paolo II non ha potuto visitarla, ma ha potuto visitare alcuni Paesi che prima facevano parte dell’Unione Sovietica. Ha visitato Lituania, Lettonia ed Estonia nel settembre 1993. È stato in Georgia nel 1999. In Ucraina nel 2001, in Kazakhstan e Armenia, sempre nel 2001 e poi in Azerbaigian nel 2002.
La visita del Papa significava per questi popoli, dopo decenni di persecuzioni da parte del sistema sovietico, una forma della possibilità di espressione della libertà di coscienza e della dignità umana, perché questi popoli erano tradizionalmente legati alla vita religiosa. Tra di loro, i cristiani che hanno potuto finalmente dimostrare anche la loro fede alla presenza del successore di Pietro che è venuto a visitarli.
Naturalmente la gente era commossa dallo stile di Giovanni Paolo II, un uomo di preghiera, un uomo che emanava “un fascino spirituale” anche per questa cultura, differente da quella occidentale in cui era presente il materialismo. Invece questi popoli, maltrattati per decine di anni dai diversi programmi di “ateizzazione”, hanno potuto mostrare la grande gioia di essere fedeli al Vangelo e ai principi del cristianesimo.
Un concetto che Giovanni Paolo II ha spesso ribadito, non solo in questi viaggi, è quello dei popoli che fanno da “ponte” tra Est ed Ovest. Che cosa ha significato questo approccio?
Giovanni Paolo II continuò la politica ecumenica promossa dai suoi predecessori, in particolare da Papa Paolo VI e si dedicò molto all’unità dei cristiani. Per esempio con l’enciclica Slavorum Apostoli del 1985, o la lettera apostolica Orientale lumen del 1995 e poi, in modo particolare, il 25 maggio 1995, con la pubblicazione dell’enciclica Ut Unum Sint, che tratta in particolare delle relazioni tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Il Pontefice stava dimostrando che la Chiesa, come comunità di fede e comunità di persone che seguono l’esempio di Gesù, si sta muovendo sulla strada giusta verso l’unità dei cristiani.
Poi, un’altra occasione di apertura fu il Giubileo del 2000, quando Il Papa invitò i popoli europei a partecipare a questo evento, non solo i cattolici, ma anche le altre comunità religiose. Nella Basilica di San Paolo fuori le mura e poi anche alla commemorazione dei testimoni della fede del XX secolo al Colosseo, erano presenti anche rappresentanti della Chiesa ortodossa. Poi ci furono altre occasioni di avvicinamento. Per esempio la visita di Giovanni Paolo II all’inizio del suo pontificato nel 1979 con il patriarca di Costantinopoli Dimitrios, o gli incontri con la Chiesa ortodossa in Vaticano nel 1987, nel 1981 al Sinodo dei vescovi europei.
E poi, nel 1994, durante la Via Crucis era presente anche il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I per finire col 1999 con il Papa che visitò la Romania, Paese a maggioranza ortodossa. Giovanni Paolo II è entrato nella storia della Chiesa come un Pontefice instancabile per lo sviluppo dell’ecumenismo tra i cristiani.
Tra i viaggi del Papa nello spazio post-sovietico spicca quello del 2001 in Kazakhstan, anche per le sofferenze che i cristiani hanno dovuto subire in quest’area. Qual era la situazione lì e in Asia centrale?
La situazione in Kazakhstan è differente rispetto alle altre comunità in Asia centrale. In Kazakhstan la situazione era strettamente legata a quella della seconda guerra mondiale e all’attacco alla Polonia da parte della Germania e dell’Unione Sovietica, che ha causato un avanzamento del potere sovietico verso il territorio polacco, causando un grandissimo spostamento forzato della popolazione dai territori di confine al territorio sovietico. I sovietici non volevano che queste zone fossero popolate da gruppi autoctoni e hanno spostato migliaia di persone in Kazakhstan e in Siberia.
Non erano solo polacchi, ma anche lettoni, lituani, bielorussi, ucraini e i tedeschi, che da secoli vivevano nel territorio russo invitati da Caterina II per lavorare nelle terre a loro offerte per la coltivazione. Per questo motivo, soprattutto in Kazakhstan, furono deportati questi cristiani, che non avevano nessuna possibilità di sopravvivere perché i treni che li trasportavano si fermavano nella steppa ed erano costretti a scendere e lì, senza nessuna forma di sostegno, hanno cercato di costruire i primi villaggi e molti sono morti di fame e di malattie. Giovanni Paolo II questo lo sapeva molto bene, perché aveva alcuni contatti con sacerdoti che lavoravano in questi territori.
Il crollo dell’Unione Sovietica e la formazione dei nuovi Stati ha offerto ai cristiani cattolici anche la possibilità di tornare nei loro Paesi. Per questo motivo il 25 settembre 2001, quando il Papa visitò il Paese, fu un giorno importantissimo per questi popoli così lontani dalle loro radici e della loro storia. Giovanni Paolo II conosceva molto bene le tragedie delle migliaia di cattolici polacchi, tedeschi, lituani, bielorussi, lettoni e ad Astana rese omaggio in modo particolare ai milioni di vittime del comunismo pregando presso il monumento che ricorda le persone qui deportate da diverse parti d’Europa.
Questo viaggio aveva anche una parte “sentimentale”, perché il Papa voleva ricordare e far conoscere al mondo intero questa tragedia dei cattolici europei portati qui e vittime di persecuzioni religiose. Voleva onorare queste persone e grazie ai media e ai giornalisti queste questioni sono diventate note al mondo e utili per le comunità locali.
Fonte: Michele Raviart – Vatican News