Non si finisce mai di impararla questa nostra meravigliosa lingua. Affascinante nella sua genesi e nella sua storia, misconosciuta a molti, troppi sedicenti italiani che sparano strafalcioni a raffica senza neppure accorgersene.
Perché scriverne? Perché ne sono innamorata e inoltre mi dà l’opportunità di trattare un argomento che ci porti fuori dal vortice dei guru mediatici che, sui social, impazzano sugli argomenti del momento e vengono seguiti come fossero il verbo incarnato.
E ne scrivono di stupidaggini, ammantandole di una neolingua di “alto profilo” che denota, purtroppo, un’ignoranza crassa. D’altra parte l’avevo già scritto che oggi la cultura è un’illustre sconosciuta. La vittima designata dalla latitanza della cultura è soprattutto l’italiano; vi chiederete perché continuare ad amare una lingua dappertutto avvilita, vilipesa e storpiata, un idioma dal passato ingombrante, dal futuro incerto.
Semplicemente perché è la più bella del mondo ed è indubbiamente molto forte. Elegante, musicale, armoniosa, dolce, piacevole, seducente; ce la invidiano in tanti, dal momento che è la quarta lingua più studiata al mondo. Gli italiani, invece, tendono a sottovalutarla, ignorando forse che le parole che ancora oggi utilizziamo hanno una storia antica e nobile.
È un gran privilegio parlare d’amore, sognare e persino imprecare con le stesse parole di Dante e degli altri grandi della nostra letteratura. Bisogna riconoscerle una tenacia eccezionale se le parole utilizzate dal sommo poeta, da Foscolo e Leopardi sono tuttora vivissime e ci fanno sperare di ritrovarci e di sopravvivere come popolo, di leggerci ancora come il multiforme paese che è l’Italia.
Dovremmo emozionarci sapendo di poter passare con facilità da un sonetto di Petrarca a una poesia di Montale, dal linguaggio di Manzoni a quello di Fantozzi di Paolo Villaggio, dai poeti siciliani e toscani ai testi di Lucio Dalla. Le altre lingue europee non offrono questa possibilità: un testo inglese del Trecento è per un inglese di oggi incomprensibile.
Non così Dante il cui linguaggio corredato da qualche nota è chiarissimo e tratta argomenti di scottante attualità. Avere come strumento per esprimersi l’idioma che ha contrassegnato nel mondo, le arti, la musica, la scienza, il canto, dovrebbe riempirci di ammirazione e orgoglio, e darci la misura delle nostre potenzialità. Amiamolo questo benedetto italiano, che Thomas Mann definiva come “lingua degli angeli” ed essa ricambierà, regalandoci oltre che fascino, emozione, sicurezza in se stessi e nelle proprie idee, tutte le parole per definire o raccontare le cose più belle della vita.
Ma riusciamo ancora da italiani a comunicare e a farci capire? Spero proprio di sì. La lingua non è solo quella accademica, nobile, ingessata, per pochi eletti, ma è anche fantasia, creatività, allegria e lo aveva capito bene Gianni Rodari con le sue filastrocche indimenticabili: il porto vuole sposare la porta; la viola studia il violino; il mulo dice: “Mio figlio è il mulino”; la mela dice: “Mio nonno è il melone”; il matto vuole essere un mattone.
Giocare con le parole, esercitare la fantasia per permettere a tutti di esprimersi, per offrire “tutti gli usi della parola a tutti, non perché tutti siano artisti ma perché nessuno sia schiavo”.(G. Rodari). Ed era dello stesso parere un altro grande maestro, don Lorenzo Milani che nel 1965 in una lettera al “Giornale del mattino”, scriveva: «chiamo uomo chi è padrone della sua lingua».
E si riferiva soprattutto al diritto dei bambini, figli di operai e contadini (che per la prima volta accedevano alle Scuole Medie), di “possedere la lingua”, per essere padroni del proprio pensiero e capaci di rapportarsi a quello degli altri. Mi chiedo che cosa direbbero Gianni Rodari e don Milani se potessero ascoltare i discorsi dei nostri illustri politici che, a volte, sembrano avere un contenzioso aperto col congiuntivo! Ma questa è un’altra storia.