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Otto anni senza padre Dall’Oglio

Era il 29 luglio 2013 quando il gesuita italiano veniva sequestrato a Raqqa, in Siria. Anche quest’anno sono numerose le iniziative per ricordare quel triste giorno. L’intervista a Riccardo Cristiano: “Ci ha insegnato cosa vuol dire essere amici di un popolo”

Una vita per il prossimo, identificato nel popolo siriano di cui – ripete ancora oggi chi l’ha conosciuto – è stato “un vero amico”. La sua capacità di ascolto, quella naturale predisposizione a favorire l’incontro, il tentativo di conoscere senza mai assimilare lo hanno reso un sacerdote in missione capace di portare la luce anche nei luoghi dove le tenebre sembravano avere la meglio. Come la Siria messa in ginocchio dal terrorismo, dall’odio frutto di un integralismo che non conosce limiti, ma solo barriere. Ricordare Paolo Dall’Oglio ad otto anni dalla scomparsa vuol dire allora non nascondere il dolore per la sua lunga assenza, ma anche rinnovare la speranza e continuare a trasmettere quel messaggio che ha diffuso giorno per giorno, nella sua quotidiana missione al servizio della Chiesa universale. Sono diverse le iniziative per questo ottavo anniversario. Tra le tante ricordiamo quella di mercoledì 28 luglio, al Centro Fonte di Ismaele di Roma, dove Francesca Dall’Oglio, assieme al giornalista Riccardo Cristiano, ha parlato ai minori non accompagnati ospiti della struttura di accoglienza del fratello. Giovedì 29 alle 21:15 a Verona – al Giardino dell’ex Nani – Combonifem, Nigrizia ed il Consiglio islamico di Verona hanno organizzato una serata di riflessione a partire da frasi di padre Paolo Dall’Oglio e della sua esperienza nel monastero di Mar Musa in Siria. Riccardo Cristiano, giornalista, vaticanista e fondatore dell’associazione Giornalisti amici di padre Dall’Oglio, è stato a lungo inviato in Medio Oriente. Con noi ricorda la figura di padre Paolo e sottolinea come la sua capacità di ascolto lo rendesse davvero prossimo al popolo siriano. Amico, appunto.

Riccardo, al Centro Fonte di Ismaele parlerai di padre Paolo ai minori non accompagnati. Perché è importante far conoscere ai più giovani la sua figura?

Credo sia importante parlarne ai giovani e più in generale a tutti. Ai giovani lo è in modo particolare perché padre Paolo era convinto che si dovesse costruire una teologia interreligiosa nel nome della sua fede. Lui l’ha costruita a partire proprio dalla figura di Ismaele, che nell’Islam è il figlio di Abramo, in un primo momento portato al sacrificio, ma poi non più sacrificato. Ismaele viene cacciato dalla famiglia insieme alla madre ed inizia una peripezia nel deserto. Abramo vede nelle lacrime della madre che non trova l’acqua nel deserto per dissetare il figlio, le stesse lacrime di Maria sotto la croce. Nel pianto di Ismaele vede un pianto evangelico e questo racconto gli fa capire come, esistendo un patto in nome dell’elezione, un patto con Dio, esiste anche un patto in nome della marginalizzazione. In nome dell’estromissione. Gli emarginati, gli estromessi sono gli eletti di Dio ed il simbolo di questo patto, di questa elezione è proprio la figura del piccolo Ismaele. Un racconto che fa capire cosa vuol dire trovare la chiave per presentare, anche con un pensiero evangelico, ciò che evangelico non è. Nella speranza di capire insieme il mistero, la propria strada, il proprio senso nel disegno complessivo di Dio.

Ascoltando le tue parole mi viene da pensare al modo in cui padre Paolo avrebbe promosso, parlato, fatto conoscere l’enciclica Fratelli tutti. Anche tu hai pensato a questo qualche volta?

Io a questo ci ho pensato tantissime volte e devo dire che questo pensiero mi accompagna spessissimo, ogni volta che sento parlare della fraternità. Mi piace allora sottolineare come padre Paolo sulla fraternità si sia speso tanto. A chi gli chiedeva di convertire i musulmani, da missionario in quella che si chiama la Terra d’Islam, lui rispondeva che in realtà non avvertiva tanto questo desiderio, quanto quello di convertirsi all’opera di Dio in ogni anima umana. Abbiamo bisogno di un nuovo profetismo in dialogo, in una esperienza sempre nuova dell’azione dello Spirito di Dio. Penso che l’ospitalità sia la cifra di tutte le culture religiose mediorientali e nella fratellanza di Papa Francesco sento questo. La trovo nell’enciclica.

Perché tanti testimoni hanno detto, e ripetono ancora oggi, che padre Paolo era amico del popolo siriano?

Per rispondere a questa domanda voglio partire da ciò che lui ha scritto sulla globalizzazione, ovvero che ha fatto molto male ai siriani. Ai musulmani ed ai siriani cristiani. Il motivo è nell’arrivo della televisione, con cui le donne cristiane ad esempio hanno visto le immagini di altre cristiane di diversi Paesi che vestivano diversamente da loro. Lo stesso vale per le donne musulmane. Hanno così cambiato il loro modo di vestire, attraverso un processo che è l’assimilazione di un modello. Questa assimilazione ha cominciato a far perdere alle persone la loro specificità, che consisteva nel vestire con un velo leggero, diverso da altri o dall’assenza totale. Un velo colorato, appoggiato sui capelli che indicava lo star dentro un sentire comune del loro popolo. Questo è un esempio di come la tradizione non sia un qualcosa di letteralista o procedurale, ma un appartenere ad un modo di essere che invece altre appartenenze imposte possono modificare, portando ad uno scontro che invece era una cultura comune. Per questo lui era un amico di tutto i siriani.

Come è cambiata la Siria in questi otto anni?

Non voglio vedere il tanto di negativo che c’è, la morte e la scomparsa di migliaia e migliaia di esseri umani. Persone di cui, come per padre Paolo, non si sa più niente. Sono successe cose terrificanti, dalle armi chimiche alle espulsioni, dai bombardamenti alla violazione dei diritti umani. Però è successo anche qualcos’altro ed è questo il filo a cui io mi aggrappo pensando a padre Paolo e pensando a questi nostri amici che vivono in Siria, come vivremmo noi se fossimo nati lì. Io credo che oggi sia caduto il muro della paura. Quando questo muro cade non si riedifica. Come si riuscirà a camminare dopo la caduta di questo muro io non lo so, ma questo fatto ancora oggi è secondo me sottovalutato.

Fonte: Andrea De Angelis – Vatican News

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