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In cammino con Dante 15 – Bonconte: da una lacrima un fiume di Misericordia

La salvezza per il capitano ghibellino, caduto a Campaldino, arriva in punto di morte in virtù di una sola «lagrimetta» di pentimento, che però nello sguardo amoroso di Dio è come un secondo battesimo

I canti dell’Antipurgatorio raccolgono, come in una galleria di gelosa memoria, i volti più cari all’esperienza umana di Dante; ha scritto con acutezza Mario Luzi: «Dante assume in proprio i fatti e il dolore dei morti “per forza”; la sua voce, perciò, si sovrappone – in principio e in fine – alle parole dette, di volta in volta, da Virgilio, Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de’ Tolomei» (Il Purgatorio. La notte lava la mente, Costa&Nolan 1990), egli ne è come un’eco e ombra amica.

A parte Belacqua nascosto «da un gran petrone» in un novero di anime «che si stavano a l’ombra dietro al sasso / come l’uom per negghienza a star si pone» (IV, 104-105), gli altri personaggi si presentano con franca vivezza e confidenza, su un proscenio di spiccata identità: «Io fui di Montefeltro, io son Bonconte» ( V, 88); «dicendo: “O Mantoano, io son Sordello / de la tua terra”; e l’un l’altro abbracciava» (VI, 74-75); «Ricorditi di me, che son la Pia; / Siena mi fé, disfecemi Maremma» (V, 133-134); «Io son Virgilio, e per null’altro rio / lo ciel perdei che per non aver fé» ( VII, 7-8); «Rodolfo imperador fu, che potea / sanar le piaghe c’hanno Italia morta» (VII, 94-95); «Vedete il re de la semplice vita / seder là solo, Arrigo d’Inghilterra » (VII, 130-131); «Giudice Nino gentil, quanto mi piacque / quando ti vidi non esser tra ’ rei!» (VIII, 5354); «Fui chiamato Currado Malaspina; / non son l’antico, ma di lui discesi» (VIII, 118-119).

Sebbene la Commedia intenda presentare le anime nel loro vero eterno volto, la traccia della terrena singolarità non sparisce mai; l’umanesimo di Dante è in quel “io” insopprimibile che definisce, ciascuno col proprio accento, ogni singolo destino, anche tra i dannati: «Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena» (Inf XXIX, 109); e via via salendo, il riconoscimento è segno di un nuovo accendersi di affetti e di charitas: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?» (Purg XI, 7981); «Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco / […] / “O Marco mio”, diss’io, “bene argomenti”» (XVI, 46 e 130); sino al tenero disvelarsi, in Paradiso, di Piccarda Donati: «Non mi ti celerà l’esser più bella, / ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda» (Par III, 48-49).

Dante sa, dei suoi personaggi, raccogliere tutta una vita in un verso, come osservò Borges: «Un romanzo contemporaneo richiede cinquecento o seicento pagine per farci conoscere qualcuno, ammesso che lo si conosca. A Dante basta solo un momento. E in quel solo momento il personaggio è definito per sempre. Dante cerca il momento centrale inconsciamente» (La Divina Commedia, in Sette notti, 1980). Per questo i personaggi di Dante sono memorabili, perché egli li fissa nel punto più intenso della loro vita, e qui particolarmente nell’istante in cui la violenza che potrebbe perdere Bonconte si fa pentimento e salvezza. Ma prima indugia su quella cruenta fine e sul misericorde scioglimento: «“Oh!”, rispuos’elli, “a piè del Casentino / traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano, / che sovra l’Ermo nasce in Apennino. // Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano, / fuggendo a piede e sanguinando il piano. // Quivi perdei la vista e la parola; / nel nome di Maria fini’, e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola» (Purg V, 94-102).

Sono versi di un’acme acutissima, che soggiogò Borges sì da citare fedelmente la scena nel suo Poema conjectural: «Come quel capitano del Purgatorio / che, fuggendo a piedi e insanguinando il piano, / fu accecato e dalla morte calcato / là dove un oscuro rio perde il suo nome: / così avrò io da soccombere». Ma lì non termina la vicenda, poiché l’intercessione di Maria strappa l’anima, nello spirare, alla violenta brama del Maligno; è, in quei versi, tutta l’eredità del conflitto tra il Bene e il Male che ha attraversato i primi secoli cristiani: «Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi: / l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno / gridava: “O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lagrimetta che ’l mi toglie; / ma io farò de l’altro altro governo!”» (V, 103-108). La misericordia di Dio, «per una lagrimetta», «per una picciola contrizione» (Francesco da Buti) trascende la giustizia della sanzione; è un’economia del perdono sovrabbondante, incomprensibile alla ratio diabolica, come osserva Anna Maria Chiavacci Leonardi: «Il diminutivo [lagrimetta] esprime la sproporzione, tra quella lacrima e la salvezza eterna, colmata dalla misericordia divina. Dante lo userà ancora, con lo stesso valore, per la vedovella di Forese, il cui pianto ha tolto allo sposo lunghi anni di pena (XXIII, 92)» (DDP, ad locum).

Sono state scritte pagine inobliabili nel Novecento sul «dono delle lacrime», da Franz Kafka a Roland Barthes; ma l’origine è biblica, sin da Isaia: «Va’ a dire a Ezechia: “Così parla Yahvé, Dio del tuo avo Davide: Ho ascoltato la tua preghiera, ho visto le tue lacrime. Ti voglio guarire; fra tre giorni salirai al Tempio di Yahvé e io aggiungerò quindici anni alla tua vita”» (38,5). È la fecondità del «seme del piangere» celebrata dallo stesso Dante, quando infine sarà perdonato da Beatrice, dopo una dura requisitoria e molte lacrime versate dal poeta: «Pon giù il seme del piangere» (Purg XXXI, 46). Abbiamo dimenticato la “fecondità” di quel seme e di quel lavacro: «E per questo ti supplichiamo, o Signore, affinché tu attenui attraverso la nostra penitenza la scaturigine della durezza del nostro cuore, e poi infonda con abbondanza, per il dono della tua grazia, ai nostri occhi fiumi di lacrime» (Alcuino, Liber sacramentorum, in PL, 101, 454D). «Nostris flumina lacrymarum oculis largiter infundas»: la lagrimetta di Bonconte è ancor meno, è una goccia nel mare dei peccati e delle infedeltà; eppure quel tenue umore è, nella misericordia di Dio, simile a un secondo Battesimo: «E se dopo il Battesimo fossero nuovamente incorsi nel peccato, per la grazia delle lacrime, quasi come per un secondo Battesimo, sono rigenerati nello stato primevo» (Wolbero di Colonia [† 1167], Commentaria in Canticum canticorum, in PL, 195, 1083C). Per gratiam lacrymarum: «Possiamo anche noi domandare al Signore la grazia delle lacrime. È una bella grazia. Piangere è frutto di tutto: del bene, dei nostri peccati, delle grazie, della gioia pure; piangere di gioia! Quella gioia che noi abbiamo chiesto di avere in cielo e che adesso pregustiamo. Piangere. Il pianto ci prepara a vedere Gesù» (Papa Francesco, cappella della Domus Sanctae Marthae, 2.IV.2013).

Terzina eponima​

«Io fui di Montefeltro, io son Bonconte
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte»

Purgatorio V, 88-90

Fonte: Carlo Ossola – Avvenire
Immagine: L’epidosio di Bonconte da Montefeltro nell’interpretazione di Gustave Doré

Carlo Ossola – Critico letterario italiano (n. Torino 1946); professore di Letteratura italiana nelle università di Ginevra (1976-82), Padova (1982-88) e Torino (1988-1999). Dal 2000 è professore al Collège de France di Parigi, cattedra di Letterature moderne dell’Europa neolatina.

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