Al festival “STORIÆ, archeologia e narrazioni” il direttore del MANN ha parlato del suo libro “Stupor mundi” e della necessità di far dialogare il contemporaneo con l’antico
C’è una Storia, quella con la ‘s’ maiuscola, e ci sono le storie, i tasselli di quotidianità che la compongono, quasi fosse un mosaico fatto di vita vissuta, usi e costumi, corsi e ricorsi, persino smorfie e tic. Servono, le storie, a creare ponti tra epoche differenti, evitare che il nozionismo generi fratture tra oggi e ieri. E a comprendere, soprattutto, che c’è una linea di continuità che attraversa i millenni: non c’è un dettaglio del passato, anche banalissimo, che non possa aiutare a comprendere la contemporaneità.
Paolo Giulierini è archeologo e divulgatore, per certi versi fine affabulatore: a lui si deve la grande trasformazione del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che dirige dal 2015 e che è oggi più che mai aperto alle grandi trasformazioni del terzo millennio.
Perché ha saputo mettersi al passo coi tempi, abbracciando la tendenza sempre più diffusa ad amplificare l’appeal dei musei (emblematico il caso del Museo Egizio di Torino), liberandosi dalle zavorre di una visione desueta e classica, per decenni immobile, dei percorsi di visita e della filosofia delle esposizioni, permanenti o temporanee.
Nel giardino della Torre del Molino, a Ischia, Giulierini ha presentato a una folta cornice di pubblico il suo “Stupor Mundi. Storia del Mediterraneo in trenta oggetti”, edito per Rizzoli. Operazione intrigante e, neanche a dirlo, attualissima: partendo dall’assunto per il quale gli oggetti persistono, resistono, superano le nostre esistenze e si presentano secoli dopo come testimoni di un tempo che fu, Giulierini ne ha scelte, dall’imponente collezione del museo, trenta.
Il perché lo ha spiegato in una delle serate clou del festival “STORIÆ, archeologia e narrazioni”, che dal 29 agosto al 5 settembre ha proposto incontri, conferenze, presentazioni di libri, tavole rotonde, mostre, visite guidate, laboratori e spettacoli, con un approccio marcatamente interdisciplinare e un filo conduttore chiaro e nitido, secondo cui – appunto – la storia è patrimonio comune al quale riferirsi come una risorsa per il futuro, il passato diventa materia utile al divenire di tutti noi.
Chapeau ad Alessandra Vuoso, che l’ha ideato e coordinato insieme al CEiC – Centro etnografico campano/Istituto di studi storici e antropologici: Ischia sa esprimere idee ed eccellenze.
Dicevamo di Giulierini e dei suoi trenta affascinanti oggetti. Statue, affreschi, collane, vasellame, maschere, bronzi, resti di esistenze ci aiutano a viaggiare da Troia a Samarcanda, dall’Egitto a Cartagine, da Pompei a Creta; attraverso il mito e attraverso la storia, da Achille a Medea, da Alessandro Magno ad Augusto e Tiberio. “Perché la vicina Capri è stata l’isola del potere”, racconta l’archeologo.
“Il titolo del libro è una provocazione: Federico II di Svevia era stato definito Stupor Mundi nel Medioevo perché aveva creato una corte dove tutti gli intellettuali di tutto il Mediterraneo si incontravano. Ecco, con questo testo ho voluto dimostrare che c’era stato un altro momento stupefacente, quello del mondo antico. Quando il Mediterraneo aveva ugualmente messo insieme tantissime civiltà”.
Il Mediterraneo, già. “E’ sempre stato definito come una madre accogliente, che accoglie i suoi figli che sono i popoli che nel tempo si succedono, che si incontrano e che nel tempo talvolta purtroppo si scontrano. Ora -spiega Giulierini – c’è bisogno di riallacciare i rapporti col mondo antico per comprendere come tante volte infinite popolazioni si siano affacciate al mare, si siano mescolate, si siano integrate e che noi, in ultima analisi, siamo la somma di tutti questi popoli. Non dobbiamo aver paura del diverso: il diverso è ricchezza, interazione e crescita”. Un messaggio attuale, attualissimo.
Come attuale, e illuminante, è l’asse che dai pittogrammi conduce alle emoticon in una linea temporale che parte dai Sumeri e arriva a Facebook. “Si parte dalla costatazione di recenti studi secondo i quali i giovani d’oggi conoscono non più di 300-400 parole in media.
Questo è molto preoccupante sia dal punto di vista semantico, della conoscenza dei significati delle parole, perché sappiamo che meno parole si conoscono e più i pensieri sono semplici; sia perché ciò implica la perdita progressiva della capacità di scrittura.
Sappiamo tutti, infatti, come i telefonini o i tablet abbiano portato sempre di più alla perdita della scrittura corsiva a mano, e quindi all’utilizzo della scrittura digitale. Ma c’è di più: l’incrocio di questi due elementi ha portato prima a semplificare i messaggi, poi a far saltare le H sostituendole con il K, e poi naturalmente a semplificare ulteriormente i concetti sostituendo la parola o espressione verbale con gli emoticon, faccine o disegnini che semplificano uno stato d’animo attraverso simboli.
Problema, quello che si sta verificando oggi nel 2021, che era già avvenuto 5000 anni fa quando, nella genesi della scrittura a partire dai Sumeri ai geroglifici, avveniva questa semplificazione. E si è chiuso il cerchio: siamo partiti da un punto e poi, dopo una grandissima evoluzione che ha visto la letteratura, i grandi classici, stiamo tornando pericolosamente al punto di partenza.
Questo non lo possiamo permettere. Ciò non significa demonizzare l’utilizzo della tecnologia, a condizione che questa non faccia perdere la capacità di scrittura e la conoscenza dei significati delle parole. Per questo il Museo si sta impegnando nella interazione con i giovani, avendo una grande sezione dedicata alle scritture e alle epigrafi latine e greche”.
Al bando dunque il nozionismo. Bisogna riappropriarsi delle storie, per comprendere davvero la Storia. E in fondo l’obiettivo, dice Giulierini, è tornare a “stupirsi di quanto, dietro alle apparenti diversità, ci sia un’umanità accomunata dalla voglia di crescere, di migliorarsi”.
di Pasquale Raicaldo
Foto di: Antonello De Rosa