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Tra i danni della DAD (e sono più di quelli che vediamo) ce n’è uno che coinvolge molti aspetti della sfera individuale degli adolescenti.

I ragazzi, in quella delicata età in cui, affacciandosi alla dimensione delle pulsioni, sperimentano emozioni nuove, variazioni ormonali e tutto ciò che ne consegue, durante la chiusura imposta e l’utilizzo smodato dei pc e dei cellulari, hanno trovato, con la velocità che li contraddistingue nell’era del “tutto e subito”, una nuova soluzione per ogni accenno di disagio o incomprensibile manifestazione emotiva non facilmente catalogabile: l’etichetta.

Il mondo sommerso degli adolescenti ha trovato e si identifica in una etichetta per qualunque cosa.

Mentre noi siamo rimasti ancorati alla dicotomia dell’etero/omo sessualità, loro hanno fatto passi da gigante, decidendo in autonomia, che spesso si identifica con una autonomia di gruppo, di etichettarsi per qualunque tipo di orientamento o sensazione o scoperta di nuove e diversificate emozionalità.

In maniera rudimentale ho cercato di aggiornarmi e ho scoperto che l’etichetta dell’identità di genere e dell’identità sessuale apre a sua volta, come scatole cinesi, diversi mondi, sempre più sommersi e di difficile percezione da parte degli adulti. Perché se c’è una cosa che hanno imparato a fare bene dietro al monitor è quella di nascondere il loro mondo sommerso, nel quale credono fermamente, sostenuti dalla forza del gruppo e da un’ampia rete di consensi online, nasconderlo, dicevo, agli occhi di chi, secondo loro, non può comprendere: generalmente gli adulti o anche chi ha già una sua personalità strutturata e incontestabile. Almeno all’apparenza.

Quindi nella classificazione delle identità e dell’orientamento annoverano l’eterosessuale, l’omosessuale, il bisessuale, il pansessuale, l’asessuale. Ognuna di queste definizioni, poi, apre dimensioni complesse e sommerse che stanno emergendo da qualche parte e che, anche senza evidenza scientifica, si prestano a definizione o etichetta che l’adolescente decide di auto assumersi: transgender, genderqueer, non-binary, genderfluid, agender, intersex, bigender e Dio solo sa quante altre definizioni emergeranno come verità assolute dal mondo sommerso degli adolescenti.

Questo il terreno più che favorevole dove sessismo, omofobia, pregiudizio e stereotipi di genere fertilizzano il disagio amalgamandosi ad un disperato bisogno di socializzazione a tutti i costi, smarcandosi da pratiche educative di vario genere, codificando un nuovo sistema di linguaggio, dando vita a nuova comunicazione mediatica e attitudini di gruppo definite poi, in maniera arbitraria, norme sociali.

Quel che si registra oggi, in questo mondo sommerso di idee confuse e pulsioni represse o addirittura esasperate, è la assoluta mancanza di chiarezza sulle dimensioni riguardanti la sessualità e l’affettività.

Questo è lo scenario dove si muovono, quando decidono di farlo, inconsapevoli o poco consapevoli gli adulti, noi adulti. Che siamo diventati bravissimi a organizzare e sostenere lavori di gruppo sulla cultura delle differenze e del rispetto dell’individuo in tutte le sue dimensioni, etnia, religione, disabilità e varie ed eventuali; encomiabili nell’affrontare tematiche politiche, religiose, sociali, specie con l’avvento della nuova materia “cittadinanza e costituzione” che in ogni disciplina ha il diritto di entrare per gli approfondimenti e noi, poveri adulti ingenui e ignari della velocità supersonica del dark web, preparando con amorevole cura la merendina per ristorare i giovani virgulti che si incontrano dopo la scuola per i lavori di gruppo, ci siamo fermati al solo bullismo omofobico, alla sola discriminazione di genere, al solo cyberbullismo. Che tenerezza.

E magari ci sfugge che mentre pensiamo di aver assolto a tutti i nostri compiti, c’è chi, non più bambino e non ancora adolescente, desidera non essere mai nato.

Perché a questa età non si ha la personalità già strutturata e in grado di sopravvivere alle occhiatine, alle battutine, alle spallate “accidentali”, agli isolamenti. In realtà non è facile trovarne nemmeno sopra i 40 di personalità ben strutturate, ma questo è un altro paio di maniche.

Se qualcuno compie lo sforzo di uscire da determinate dinamiche, che a lungo andare creano disagio, frequentando, per esempio, altre persone, il “gruppo” del “ti accettiamo” attacca in qualche modo le persone terze.

Alla fine non tutti, con le fragilità naturali e tipiche dell’età, sono in grado di compiere la scelta tra “con noi o contro di noi” e il salto quantico dell’”oltre”. Rimanere nel gruppo, fosse anche per stare a guardare, diventa un privilegio.

La variabile non considerata e non prevedibile, il contatto con persona esterna, esterna alla classe, all’ambiente o all’isola, manda il “gruppo” in tilt e non potendo in nessun modo controllare la variazione, preventivarne l’esito ed esprimere il potere decisionale del “ti accetto” o “non ti accetto” propone l’attacco frontale esternando “il meglio di sé”, che fino ad ora era riuscito a controllare, a camuffare, dissimulare. Quando il gruppo implode, – complice la mistura chimica del disagio di cui sopra, e la “distrazione” di noi, gli pseudo adulti, preposti alla cura, al sostegno, al controllo – ebbene, subisce una frattura, una separazione, un’alienazione, che diventa irreparabile.

Abbiamo fallito tutti. Noi genitori che ci proclamiamo attenti e sensibili, noi educatori e/o docenti e tutti insieme ancora a raccontarci la favola della sinergia. E mentre ci crediamo o facciamo finta di crederci, in questa sinergia, per questioni di comodo, di deresponsabilizzazione o altro, si consuma, all’interno dell’individuo non ancora formato ma già “deformato”, il dramma del disagio dello stare in vita, e la fatica di alzarsi ogni mattina ha scalzato il piacere del ritorno in presenza, la rassegnazione di rivivere ogni giorno un cliché trito e ritrito ha rubato il posto all’entusiasmo per la scoperta di nuove cose. Abbiamo fallito tutti. Noi pseudo adulti. Tutti.

La buona notizia è che i ragazzi, ancora una volta, ci sorprendono come solo i fuoriclasse sanno fare. Vanno oltre il rancore, oltre lo scherno, al di là della ipocrisia, e salgono le scale. Loro sono quelli che dopo la scivolata si fasciano le ferite, raddrizzano la schiena e, se hanno preso un impegno, lo portano a termine, mettono il loro dolore in tasca e, chiamati a rappresentare la scuola nella tappa per l’Unicef, prendono il microfono e davanti a tutti, amici o nemici, adulti o adolescenti, vittime o prede, ma proprio tutti, recitano:

Chiedo un luogo sicuro dove posso giocare
chiedo un sorriso di chi sa amare
chiedo un papà che mi abbracci forte
chiedo un bacio e una carezza di mamma.

Io chiedo il diritto di essere bambino
di essere speranza di un mondo migliore
chiedo di poter crescere come persona
Sarà che posso contare su di te?

Chiedo una scuola dove posso imparare
chiedo il diritto di avere la mia famiglia
chiedo di poter vivere felice,
chiedo la gioia che nasce dalla pace

Chiedo il diritto di avere un pane,
chiedo una mano
che m’indichi il cammino.

Non sapremo mai quanto bene
può fare un semplice sorriso.

Madre Teresa di Calcutta

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