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Santa Giuseppina Bakhita – 8 febbraio

Oglassa, Darfur, Sudan, 1868 – Schio (VI), 8 febbraio 1947

Esiste un manoscritto, redatto in italiano e custodito nell’archivio storico della Curia generalizia delle suore Canossiane di Roma, che raccoglie l’autobiografia di santa Bakhita, canonizzata in piazza San Pietro il 1° ottobre 2000 fra danze e ritmati canti africani. In questo manoscritto sono racchiuse le brutture a cui fu sottoposta Bakhita nei suoi tragici anni di schiavitù, la sua riacquistata libertà e infine la conversione al cattolicesimo.

«La mia famiglia abitava proprio nel centro dell’Africa, in un sobborgo del Darfur (Sudan), detto Olgrossa, vicino al monte Agilerei… Vivevo pienamente felice… Avevo nove anni circa [in realtà sembra ne avesse sette], quando un mattino… andai… a passeggio nei nostri campi… Ad un tratto [sbucano] da una siepe due brutti stranieri armati… Uno… estrae un grosso coltello dalla cintura, me lo punta sul fianco e con una voce imperiosa, “Se gridi, sei morta, avanti seguici!”».

Per il trauma subito, dimentica il proprio nome e quello dei propri familiari: i suoi rapitori la chiamano Bakhita, che in arabo significa “fortunata”.  Venduta a mercanti di schiavi, inizia per Bakhita un’esistenza di privazioni, di frustate e di passaggi di padrone in padrone. Viene tatuata con rito crudele e tribale: 114 tagli di coltello lungo il corpo: “Mi pareva di morire ad ogni momento… Immersa in un lago di sangue, fui portata sul giaciglio, ove per più ore non seppi nulla di me… Per più di un mese [distesa] sulla stuoia… senza una pezzuola con cui asciugare l’acqua che continuamente usciva dalle piaghe semiaperte per il sale”.

Giunge finalmente la quinta ed ultima compra-vendita: nel 1882 a Khartum la acquista un agente consolare italiano, Callisto Legnani, con il proposito di renderle la libertà. Questo diplomatico già in precedenza aveva comprato bambini schiavi per restituirli alle loro famiglie. Nel caso di Bakhita ciò non fu possibile per il vuoto di memoria della bambina riguardo ai nomi del proprio villaggio e dei propri familiari.

Per la prima volta, Bakhita indossa un vestito. “Fui davvero fortunata; perché il nuovo padrone era assai buono e prese a volermi bene tanto”. Trascorrono più di due anni. L’incalzante rivoluzione mahdista fa decidere il funzionario italiano di lasciare Khartum e tornare in patria. Allora “osai pregarlo di condurmi in Italia con sé”. Bakhita raggiunge la sconosciuta Italia, dove il console la affida a un amico,  Augusto Michieli, e alla moglie e per tre anni sarà la bambinaia della loro figlia, Alice detta Mimmina.

Poi, la mamma di Alice, Maria Turina Michieli, dovendo raggiungere l’Africa per un certo periodo di tempo, decide di mandare figlia e bambinaia in collegio. La giovane viene ospitata nel Catecumenato diretto dalle Suore Figlie della Carità (Canossiane) di Venezia (1888) e qui incontra il Signore. “Circa nove mesi dopo, la signora Turina venne a reclamare i suoi diritti su di me. Io mi rifiutai di seguirla in Africa… Ella montò sulle furie”. Nella questione intervengono il patriarca di Venezia Domenico Agostini e il procuratore del re, il quale “mandò a dire che, essendo io in Italia, dove non si fa mercato di schiavi, restavo… libera”. il 29 novembre1899 Bakhita viene dichiarata legalmente libera.

Il 9 gennaio 1890 riceve dal Patriarca di Venezia il battesimo, la cresima e la comunione e le viene imposto il nome di Giuseppina, Margherita, Fortunata.

Nel 1893 entra nel noviziato delle Canossiane. “Pronunciate i santi voti senza timori. Gesù vi vuole, Gesù vi ama. Voi amatelo e servitelo sempre così”, le dirà il cardinal Giuseppe Sarto, nuovo Patriarca e futuro Pio X, vincendo anche il suo sentimento di indegnità. Nel 1896 pronuncia i voti e sei anni dopo viene trasferita a Schio (Vicenza) dove ha incarichi di cuciniera, sacrestana e infine di portinaia, servizio che la mette in contatto con la popolazione locale che prende ad amare questa insolita suora di colore per i suoi modi gentili, la voce calma, il volto sempre sorridente: viene così ribattezzata  dagli abitanti di Schio “Madre Moréta”: il dialetto veneto è l’unico modo che Giuseppina conosce per comunicare.

A chi le domanda come sta, risponde invariabilmente “Come che al Signor ghe piase: le lu ch’el comanda” (“Come piace al Signore, è lui che comanda”). E ancora: “Credela che sia facile contentar el Pàron? Però mi faso tuto quelo che poso. El resto lo fa Lu” (“Crede sia facile accontentare il Padrone? Però io faccio tutto quello che posso: il resto lo fa Lui”): in una frase madre Bakhita è in grado di condensare il proprio abbandono confidente in Dio e – forse – proprio il motivo della sua santità. La suora di “cioccolato”,  che i bambini provavano a mangiare, afferma: “E po anca i dise ‘poareta, poareta’ e mi no son poareta parché son del Paròn e nea so casa. Quei che no i xe tutti del Signore i xe poareti ” (“E poi dicono ‘poveretta, poveretta’ ma io non sono poveretta perché sono del Padrone e nella sua casa. Quelli che non sono tutti del Signore sono poveretti’).

La storia di Giuseppina viene raccontata da Ida Zanolini nel libro “Storia Meravigliosa” stampato per la prima volta nel 1931(ristampato 4 volte nel giro di sei anni), e letto in tutta Italia; suor Bakhita affronta la prova della popolarità, per obbedienza e servizio alla causa, viaggiando per tutta l’Italia.

Dal 1939 comincia ad avere seri problemi di salute dovuti alle tremende sofferenze fisiche patite da bambina, e non si allontana più da Schio dove muore l’8 febbraio1947. Aveva detto: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa…”.

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