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La pace nasce dal cuore

Pasquale, Francesco, Giovanni: nomi italiani, comunissimi, scontati, per qualcuno addirittura brutti e improponibili. Mi è capitato di ascoltare qualche giorno fa un ragionamento simile, e ho tentato di spezzare una lancia a favore di questi nomi che ho definito bellissimi e pieni di significato. Inutilmente.

Il luogo del ragionamento: un bus di linea; i protagonisti: un uomo più vicino ai 60 anni che ai 50, una donna in evidente stato di gravidanza e pochi passeggeri. Poche battute tra il signore e la donna, un po’ imbarazzata. Il signore le chiede come chiamerà il bambino e senza fermarsi un attimo, le suggerisce di chiamarlo Brian.

La signora aveva detto solo che sarebbe stato un maschio senza aggiungere altro; si limitava a sorridere accogliendo in silenzio e molto saggiamente tutto quanto l’altro andava blaterando. E di qui in poi il nostro eroe si è lanciato in un elogio stratosferico dei nomi stranieri, essendo quelli nostrani troppo banali e comuni. “Da noi solo Pasquale, Francesco e Giovanni… aè!” “ E ho detto tutto”.

Avrebbe aggiunto Peppino De Filippo. Ma Peppino non c’era (si sarebbe preso una bella lavata di testa per il suo comunissimo nome!) e a questo punto sono intervenuta facendo notare invece che erano nomi bellissimi pieni di storia e di significato. A partire da Francesco che è un augurio di pace e serenità per la vita di chiunque porti questo splendido nome. Ho scatenato, involontariamente, l’inferno.

Sono stata travolta da una valanga di pregiudizi e luoghi comuni, da un attacco furioso alla Chiesa, ai preti, ai cristiani in genere. Perché? Per avere solo nominato Francesco, per avere fatto riferimento alla pace e a questo santo che quando infuriavano le crociate ebbe il coraggio di andare in visita al sultano per tentare di mettere pace.

La pace nasce dal cuore dell’uomo e se siamo in lotta con noi stessi è normale che tutti gli altri ci appariranno come nemici, avversari, persone da denigrare e distruggere. Un po’ come sta accadendo oggi tra Russia e Ucraina. – E già, – ha ripreso il signor X – San Francesco! Lui era un Santo, ma oggi…- e ha continuato con una serie di lamentele, di torti subiti soprattutto dalle “persone per bene” da parte di quelli che frequentano la Chiesa regolarmente, da chi ti aspetteresti un aiuto e invece…

Era un fiume in piena, un mare di puro risentimento. – La pace? A parole. I cristiani? Spietati. I preti? Mangioni e menefreghisti, tutti, dal primo all’ultimo. E la guerra? Non possiamo farci niente, le preghiere non servono a niente e faremo tutti una brutta fine.- Il ragionamento, dettato probabilmente “dall’inquilino del piano di sotto”, non fa una grinza. Peccato!

La chiusura del cuore e della mente è terribile. I miei tentativi sono caduti tutti nel vuoto: inutile fare riferimento alla preghiera, inutile dire che non tutto è negativo come sembra, che c’è sempre una speranza di bene, ma bisogna cercarla e alimentarla. E la cosa mi ha fatto pensare: se non cambia qualcosa nel cuore di ciascuno di noi siamo finiti.

E penso a quanti la pensano allo stesso modo, rinunciando a sperare, a dialogare, a cercare la pace appunto, in primis dentro di sé, anzi con se stessi, prima di aggredire ed accusare l’universo intero delle proprie calamità.

Ognuno di noi ha subito delle ingiustizie durante la propria vita, ma non possiamo solo piangerci addosso e incolpare sempre o solo gli altri, e in particolare alcune categorie fisse, in primis i preti, la chiesa e i cristiani. Siamo sullo stesso piano del famosissimo detto “Piove: governo ladro”. Ho pensato in particolare alla sfida di essere cristiani oggi. È vero, a volte ci si comporta proprio come i Farisei: attentissimi alle regole, alle funzioni liturgiche, all’osservazione ossessiva di tradizioni che forse il Signore neanche si sognava di imporci. E poi? Nei rapporti quotidiani con gli altri, a volte ci manca l’essenziale: la comprensione, la misericordia, l’accoglienza, al punto da scatenare il livore e il risentimento di chi si è sentito escluso.

E la pace da cercare? Non è l’atarassia di cui parlava il filosofo greco Epicuro, cioè uno stato di benessere per l’assenza di dolori o preoccupazioni, quella è molto simile alla morte. La pace alla quale aspiriamo non è solo la liberazione dalla guerra come quella attuale che ci sta devastando, ma, ripeto, deve nascere dal cuore, nel senso che di lì nasce il prendersi cura di sé e degli altri.

Ce lo ha ricordato il Vangelo di domenica 20 marzo; se non riusciamo a portare frutto, almeno un frutto di bene, siamo falliti come cristiani. Siamo nella categoria farisaica, o degli scaldasedie in chiesa, come ci definisce qualche sacerdote “sprint”.

Il ragionamento di quell’uomo nasceva da un atteggiamento che ha rilevato e sperimentato: a parole siamo tutti bravi, ma bisogna essere capaci di passare dal bla bla bla, ai fatti. Questa è la sfida.

Dulcis in fundo, a fine corsa – Signora state attenta, siete una brava donna, non fatevi ingannare..- sempre contro la Chiesa cattolica.

Sono dovuta scendere e ho pensato, non avendo avuto il tempo di rispondere: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”

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